Quanto vale un mito. Ma soprattutto cosa lascia? I miti odierni nascono e muoiono con la stessa velocità del mondo contemporaneo. Si accendono e si spengono come una stella cadente che lascia una scia luminosa e poi scompare nel nulla. Basta dunque un attimo per generarli.
Sono gli uomini mitici senza memoria. Decretati da una storia recente che è passeggera, senza spina dorsale, quando questa dovrebbe essere composta da un insieme di elementi che la rendono, allo stesso modo, forte e flessibile. Forte per sopportare il peso della storia e flessibile per assorbirne i contraccolpi e i movimenti sussultori del tempo.
Concettualmente il mito nella storia ha a che fare con la conoscenza e il linguaggio ancor prima che con il rito. Con il pathos e la poesia che scaturisce dall’anima e vaga in un Mediterraneo più vasto del nostro, in uno sbalzo che annulla le distanze e dilata il tempo.
É ciò che ha fatto Miles Davis nel Novecento. L’ha fatto lasciando a noi del presente non solo un’icona ma un soffio che è carezza e graffio. Un uomo che è stato capace di raccontare una storia recente che va aldilà del jazz e della musica e la cui personalità marcata appare prepotentemente non solo attraverso la sua tromba ma anche nel viso scavato degli ultimi anni, negli occhi profondi che inchiodano lo sguardo e nelle mani rugose che hanno toccato il cuore. Mani scure che disegnano il pianeta attraverso un reticolo di linee che navigano negli oceani, tra l’Africa e il mondo.
Il 28 settembre del 1991 Miles Davis III moriva all’età di 65 anni in un letto di ospedale a Santa Monica per una polmonite.
Mi trovavo a Cagliari sul Bastione di Saint Remy che guarda il mare africano e ricordo perfettamente la qualità della luce di quella mattina. I cagliaritani si apprestavano ad andare in spiaggia nell’ultimo colpo di coda dell’estate, ignari di avere perso un genio della contemporaneità. Miles se ne era andato senza fare rumore. Come il timbro scuro della sua tromba dalla quale avevo appreso il lato più femminile del suono.
Se ne era andato colui che aveva aperto tutte le porte del jazz, che grazie a lui, noi, avevamo potuto varcare.
Lo conobbi musicalmente alla fine degli anni 70. Suonavo Le foglie morte con il gruppo da ballo e quando sentii Autumn leaves non riconobbi neanche quel tema che avevo suonato mille volte per fare ballare la gente. Il quintetto di Davis la aveva eseguita nel 1963 a Juan-Les Pins, in Francia, in una maniera così lunare e nuova che io non avevo riconosciuto neanche la melodia. Quella fu la mia prima lezione di jazz.
Compresi che era la musica della libertà e che la grandezza di un musicista stava nella sua capacità di espandere e distorcere una semplice successione di note tanto da farla diventare altro: un’opera d’arte originale e unica. Capii che quella musica poteva essere la mia musica: poteva darmi gli strumenti per esprimermi al meglio e raccontare me stesso.
Miles era un fanatico dello sport, che oltre ad essere una passione divenne per lui la sua ancora di salvezza. Nel 1954 dopo un lungo periodo di crisi, uscito dal tunnel della droga segnato dalla morte di molti suoi amici e colleghi, decise che la sua nuova dipendenza sarebbe stata la boxe.
Ho davanti agli occhi questa celebre foto di Miles Davis sul ring, ritratto come il pugile Jack Johnson, un’icona della comunità afroamericana, a cui Miles dedicherà un disco nel 1971 e che diventerà la colonna sonora del documentario di William Clayton.
Qui Miles non è solo un musicista ma un combattente. La tromba diventa un’arma e un compagno di viaggio, capace di sussurrare note che colpiscono come la forza di un pugno. Il suono è un gancio preciso, che vibra nell’aria. Ascoltando Miles si capisce che non suonava solo per sé stesso, ma soprattutto per chi lo ascoltava; la musica diventava il riscatto per quella comunità che aveva bisogno di vincere un match. E c’è una foto di Giuseppe Pino dove Miles pone in evidenza le sue mani scure solcate dal tempo come a voler ribadire ancora una volta la sua negritudine.
Credo che uno dei suoi colori preferiti fosse il rosso, il simbolo della ribellione. Lo si denota non solo dal suo abbigliamento ma anche dalla sua tromba e rossa era una delle sue Ferrari che tanto amava. Una di queste, parcheggiata nell’agosto del ’59 al Birdland, il locale dedicato al suo amico e maestro Charlie Parker, gli procurò manganellate e l’arresto da parte della Polizia di New York solo perché lui, star quella sera in quel locale, uscì tra i due set accompagnato da una donna bianca. Miles non dimenticò mai l’umiliazione subita su quel marciapiede al punto che, quasi trent’anni dopo, intitolò il suo ultimo album per la Columbia con le parole che il poliziotto gli rivolse: «You’re under arrest!»
Miles Ahead. Guardava sempre avanti costellando la sua attività discografica di progetti visionarti e coraggiosi. Tra questi Kind of Blue che segna uno spartiacque tra il jazz degli anni 50 e 60.
Registrato a New York nel 1959 e pubblicato il 17 agosto dello stesso anno ebbe un’accoglienza strepitosa da parte della critica, e rimane ad oggi uno dei dischi di jazz più venduti e ascoltati della storia assieme A Love Supreme di John Coltrane, il suo compagno di avventure musicali per alcuni anni.
Ancora una volta Miles stravolge il jazz svuotando la ricchezza armonica del bebop del suo idolo giovanile Charlie Parker e crea ampi spazi di silenzi. Due sono gli accordi di So What, il brano più noto di quell’album che ha cambiato la musica del Novecento.
Se ripercorriamo la storia discografica di Miles Davis, vediamo come il suo suono interiore non è mai cambiato. Parola di trombettista. Quando negli 80 dopo una lunga malattia Miles tornò in auge venne criticato molto perché tornò con suoni e stili elettrici molto diversi dai precedenti.
Percepivo che l’essenza sonora era rimasta immutata, specchio della sua anima. E molti dicevano che Miles suonava di spalle irrispettoso del pubblico senza comprendere che suonare di spalle significava solo comunicare meglio con i propri musicisti sul palco. Suonava spesso con la tromba rivolta verso il basso, producendo suoni distillati, quasi tetri. Era come se le note cadessero per terra, dando l’impressione che suonasse solo per sé, immerso nell’intimità del suo rapporto con lo strumento. Eppure, quel magnetismo raccolto e trattenuto catturava gli ascoltatori, che non riuscivano a distogliere l’attenzione, ipnotizzati dal suo carisma.
Macchine di lusso, moda, donne, droga erano le sue passioni oltre alla musica e ciò lo rendeva una figura misteriosa e affascinante. Ma dietro quei gioielli, quelle camicie coi lustrini, le Ferrari, quello che davvero emergeva era l’esigenza di un riscatto: una dichiarazione di potenza e orgoglio del suo essere afroamericano. Un conflitto con sé stesso che non fu mai risolto.
Nel febbraio del ’64 organizzò un concerto per sostenere l’elettorato afroamericano in Louisiana e Mississippi. Miles volle che i suoi musicisti suonassero gratis, ma non tutti erano d’accordo. Forse proprio questa tensione si riflette nella magia dell’esecuzione di My Funny Valentine, tanto che un rantolo orgasmico, durante un momento in cui sembra che il gruppo si fosse perso più volte all’interno del brano ma poi ritrovato – si dice di Dizzy Gillespie – si levò in sala durante l’assolo del divino.
Questo era Miles teso tra passioni e lotte civili. Un giornalista raccontò su «Cavalier» un episodio che illuminava la natura di Davis: dopo un’intervista, a bordo della sua piscina, vuota e deserta, Miles, in acqua, si avvicinò a lui e, con uno sguardo d’intesa, disse: «Ora capisci cosa significa essere un nero. Nessuno vuole fare il bagno con te». Per la prima volta, infranse la sua freddezza e gli fece l’occhiolino.
Rischiai di conoscerlo nell’estate del 1984 quando suonò a Terni in occasione di Umbria Jazz. Io mi trovavo in città per insegnare e il direttore del Festival mi invitò al concerto. Gli strepitosi pantaloni di pelle colore rosso intenso con i quali Miles si presentò sul palco facevano a cazzotti con la T-shirt gialla e con la catena d’oro che forse pesava un paio di chili.
Il concerto fu bellissimo e coinvolgente. Mentre andavo via l’organizzatore mi vide passare e m’invitò ad andare a salutarlo ma non ce la feci. Me la svignai alla velocità della luce, mentre il mio cuore batteva al triplo del ritmo del concerto.
Tornando a Bologna mi sorpassò una Mercedes nera e mi parve di intravedere all’interno il divino e per giorni lo vedevo dentro qualsiasi macchina nera. Nero come la pece, con una collana spessa due dita, giudicante e con due occhi che ti svuotano l’anima.
Questo era Miles che oggi chiamiamo solo per nome. Una tromba colorata e un corpo nella tipica postura ad “S”. Da un lato per cercare il suono nella terra e dall’altro per allontanarsene quasi volesse cercare un appoggio che non c’era.
Miles si è sempre appoggiato su sé stesso e su una vita alla quale chiedeva tanto, come gli artisti pop condannati in eterno a vestire la propria gioventù. Un uomo geniale e visionario, pragmatico e allo stesso tempo cinico come alcuni dei grandi artisti del Novecento. «Per me la musica e la vita sono una questione di stile» affermava Davis quando il grande Ornette Coleman diceva che «la musica non è uno stile».
Lui era Miles e basta. E lo stile lo incarnava.