La “palla” diplomatica che tutti, da Marco Rubio a Emmanuel Macron, avevano ritenuto essere finita dopo la proposta di tregua ucraino-americana in campo russo, è rimasta al Cremlino soltanto per un paio di giorni. Ieri, con un lungo tiro, Vladimir Putin l’ha rispedita a Washington. Prima, ha indossato una mimetica per andare nel Kursk, a mostrarsi come il comandante sul campo di un esercito che avanza. Poi, ha fatto dire al suo consigliere per gli affari internazionali Yuri Ushakov che la Russia era contraria a un cessate-il-fuoco di 30 giorni che considerava un «trucco per favorire gli ucraini» (e il disclaimer del diplomatico che si trattava soltanto di una sua «opinione personale» è suonato quasi ridicolo). Poi, fa sapere che l’inviato di Donald Trump, Steve Witkoff, arrivato a Mosca ieri, dovrà aspettare una eventuale convocazione al Cremlino a fine serata. “Quando il presidente Putin sarà pronto, darà lui il segnale”, dice Ushakov davanti alle telecamere, con l’evidente intento di mostrare che l’ospite americano – scelto da Trump proprio perché un “negoziatore duro” – non fa paura ai russi. Infine, arriva il turno di Putin di parlare, e dichiarare di non essere contrario in linea di principio a una tregua, “idea giusta”, per poi snocciolare una serie di domande tutt’altro che pretestuose sulle condizioni alle quali attuarla: chi dovrebbe ordinare di cessare le ostilità, chi e come dovrebbe controllare il rispetto dei patti, chi verrebbe incaricato di verificare le eventuali violazioni e come sarebbero state sanzionate.
Sostanzialmente, Putin ha fatto la stessa cosa che aveva fatto due settimane prima nello Studio Ovale Volodymyr Zelensky, ma da una distanza di sicurezza: ha sgonfiato l’entusiasmo di Donald Trump con una secchiata di freddo realismo politico. Al quale ha aggiunto, sempre in forma di domande retoriche, una manciata di condizioni supplementari russe: sospendere per la durata della tregua l’invio delle armi all’Ucraina e la mobilitazione di nuove reclute, senza ovviamente promettere un impegno simmetrico della Russia. Inoltre, Putin vuole che Kyiv ordini la resa alle truppe ucraine ancora rimaste nella regione russa di Kursk. Una condizione impossibile dopo che lo stesso dittatore russo aveva, appena il giorno prima, promesso che i soldati ucraini catturati in territorio russo sarebbero stati trattati non come prigionieri di guerra, ma come «terroristi», quindi non soggetti allo scambio «tutti contro tutti» proposto da Zelensky.
Se qualcuno a Washington aveva pensato che, dopo aver ottenuto con il ricatto l’assenso dell’Ucraina alla proposta di tregua, Putin sarebbe stato costretto a firmare, per non apparire come il responsabile della guerra, aveva sottovalutato l’esperienza del Cremlino nei giochi diplomatici. Ovviamente Putin non dice un “niet” chiaro, dice “sì, però”, e invita la gli americani e gli ucraini ad aprire delle danze interminabili su condizioni, protocolli, garanzie, clausole e cavilli. Zelensky, che ha già l’esperienza degli accordi di Minsk, interviene subito parlando di «parole prevedibili» e di «una manipolazione sulla tregua da parte di Putin, che in realtà sta preparando un rifiuto fin da ora». Osservando in silenzio per due settimane Trump tormentare l’Ucraina, Putin ne ha tratto due lezioni importanti: la prima, che il presidente americano continua a confondere la tregua con la pace, e la seconda che contraddirlo apertamente potrebbe portare a risultati spiacevoli. Quindi si solidarizza di nuovo paradossalmente con Zelensky nel dire che un cessate-il-fuoco è inutile e bisogna procedere invece verso una «risoluzione complessiva, che sradichi la causa del conflitto». Che, per Mosca, era l’esistenza stessa di un’Ucraina indipendente e orientata verso l’Occidente.
Putin alza la posta dunque, convinto di essere in questo momento nella posizione più forte, «con le carte in mano», per usare un linguaggio trumpiano. La controffensiva russa a Kursk minaccia di togliere a Zelensky una importante pedina di scambio territoriale, e sostenendo che l’esercito russo «avanza lungo tutto il fronte», il capo del Cremlino invita a far partire un eventuale accordo dalle “realtà sul terreno”. Che probabilmente spera di cambiare ulteriormente a suo favore, con o senza un accordo formale di tregua.