monica serra
A fine febbraio del 2020 la situazione in Lombardia era già fuori controllo. A Bergamo i carabinieri andavano a caccia di ossigeno. Alla ricerca delle bombole che non c’erano per i malati di Covid che si moltiplicavano, di ora in ora. Battevano paese per paese, per recuperare le bombole dalle abitazioni di persone nel frattempo decedute o finite in ospedale. Avevano addirittura creato un hub in caserma per i dispositivi da distribuire a chi ne avesse bisogno. Eppure, in base al folle imperativo di «non creare panico», anche ai militari dell’Arma sarebbe stata negata la verità sul numero dei malati e dei morti di Covid.
L’allora comandante provinciale, Paolo Storoni, aveva chiesto quei dati al dg di Ats, Massimo Giupponi. Ma l’ordine dei vertici di Regione Lombardia era di «evitare allarmismi», celare i fatti tragici che potessero «scatenare il panico». «A che cosa servono i numeri alle forze dell’ordine? » . Per «valutare l’opportunità e l’eventuale obbligo di dare queste info», che evidentemente non condivideva, Giupponi scrive all’ufficio Affari generali. Alla fine Ats invia una nota a tutti i sindaci per informarli che «neppure i carabinieri sono titolati a richiedere dati epidemiologici».
Il 26 febbraio alle 19, Alberto Zoli, di Areu, manda un messaggio al vicepresidente della Regione, Fabrizio Sala: «Non vogliono o meglio Gallera non vuole dare i dati giusti, ma oramai siamo a 305 positivi». La risposta: «Sono aggiornato, ho appena sentito Attilio», il governatore di Regione Lombardia.
L’«indicazione» era questa, a tutti i livelli: governo, Regione, Comune. Anzi, neppure i primi cittadini dovevano sapere. Nelle sue chat con Giupponi, l’assessore al Welfare di Regione Lombardia, Giulio Gallera, lo ripeteva spesso: «Ats non deve comunicare i dati dei positivi ai sindaci». Nonostante – annota la Gdf – anche loro fossero «autorità sanitaria locale, nonché autorità di pubblica sicurezza». E questo assurdo «divieto», per l’accusa, ha impedito loro di valutare la possibilità di adottare o richiedere «provvedimenti urgenti» e necessari, come la zona rossa ad Alzano e Nembro.
Tacere, punto. Sminuendo la gravità della situazione. Arrivando a incontrare capiredattori e direttori dei più importanti media locali «con lo scopo di condividere con loro la non opportunità che vengano pubblicati dati sui contagi, ma notizie positive come la disponibilità del volontariato al trasporto dei dializzati». Per poi tacciare di «fake news» e bacchettare chiunque si permettesse a contraddire l’indicazione.
Peccato che proprio il mancato rispetto del dovere di trasparenza e informazione, secondo gli investigatori, avrebbe contribuito all’espansione della epidemia.
Si legge, infatti, nelle carte dell’inchiesta: «Non può non evidenziarsi come la continua volontà di tacere i dati, secretare il piano Merler di risposta all’epidemia» perché mostrava già quale sarebbe stato lo «scenario catastrofico» cui si andava incontro, «negare la gravità del quadro epidemiologico, minimizzare, cercare, appunto, di non creare panico», abbia, invece, prodotto nella popolazione «l’idea che la situazione non fosse così grave». Con l’assurda conseguenza che «tali indicazioni potrebbero aver indotto i cittadini a tenere comportamenti certamente meno prudenti del necessario. Concorrendo, quindi, all’espansione dell’epidemia e al loro contagio».
Sono categorici i magistrati della procura diretta da Antonio Chiappani. E per spiegarlo mettono in fila molti esempi. Come la chat di whatsapp in cui l’assessore Gallera andava su tutte le furie quando era trapelata la notizia di un bambino di un anno di Alzano Lombardo finito in terapia intensiva al Papa Giovanni di Bergamo: «Dare questa notizia è devastante. Chi l’ha data? Vi abbiamo detto allo sfinimento di non dare numeri! » , scriveva su Whatsapp alla dg Beatrice Stasi. «Un bambino in terapia neonatale domani è l’apertura dei giornali nazionali. Notizia devastante. Licenzia l’addetta stampa! » .
E ancora, come le preoccupazioni di Aida Andreassi, medico della direzione generale Welfare in Regione. Il 7 marzo scriveva in chat: «Sono con gli intensivisti. Mi viene da piangere, mi viene da piangere, mi viene da piangere. Sai cosa mi ha detto il presidente? Che non si può dire la verità. Gli ho risposto che allora siamo come in Cina. Lui mi ha risposto che siamo peggio che in Cina, almeno lì lo sanno che c’è la dittatura». E ancora: «Se sarai con i sindaci alle 14 ti scongiuro di dire la verità. Digli al presidente che gli intensivisti vogliono uscire con messaggi devastanti alla popolazione. Gli conviene che sia lui o i sindaci o gli sputtaneranno». Andreassi si disperava: «La proiezione lombarda dice 20 mila casi al 26 marzo. Vuol dire 10 mila ricoveri e 2 mila posti in terapia intensiva in Lombardia. Noi al massimo arriviamo a 900 posti. Solo per il Covid faremo migliaia di morti e altrettanti per pazienti con infarto, oncologici, traumi e neurologici… Ho parlato con Fontana, dice che è “una indicazione” tenere tutto nascosto… I nostri politici sono delle m…».