Capita che un grande terremoto si preannunci con piccole scosse, e quelle che si sono verificate nel weekend in due luoghi apparentemente lontani – Bratislava e Washington – suggeriscono che da qui al 2024 il sostegno occidentale all’Ucraina non sarà più così solido.
Gli americani per primi, sotto scacco dell’ala dura del partito repubblicano, e di chi sogna un ritorno trumpiano alle presidenziali, hanno sacrificato gli stanziamenti per Kiev pur di evitare che la macchina dei servizi pubblici si fermasse (il cosiddetto “shutdown”). Ma anche l’Ue ha offerto a Vladimir Putin e al suo partner in crime europeo, Viktor Orbán, motivo per festeggiare: dalle elezioni slovacche di sabato è uscito trionfante Robert Fico.
Vale per Bratislava, con il rebus delle coalizioni, come vale per l’Ue del voto di giugno, o per gli Usa che nel 2024 rinnoveranno la Casa Bianca: il finale non è già scritto. Ma le scosse sono segnali da non eludere.
IL RITORNO DI FICO
«Indovinate chi è tornato!», ha detto questa domenica il premier ungherese esibendo la sua foto assieme a Fico; quest’ultimo torna rinvigorito dal voto slovacco: il suo partito, Smer, ha incassato un 23 per cento che è il risultato migliore fra tutti e che gli tributa l’iniziativa per formare un nuovo governo.
Torna così, come sono tornati l’autocrate Orbán, premier dal 1998 al 2002 e poi ininterrottamente dal 2010 a oggi, o il Berlusconi di Praga, Andrej Babiš, accentratore di poteri politici ed economici, entrato e uscito dai governi, e tuttora un’ombra sulla politica ceca. Robert Fico aveva già governato la Slovacchia dal 2006 al 2010, ed era tornato al potere nel 2012, fino a marzo 2018, quando ha dovuto restituire le chiavi di governo per l’assassinio di Jan Kuciak. Il giornalista stava indagando sui rapporti torbidi tra uomini d’affari, servizi segreti slovacchi e politici; una sua inchiesta pubblicata postuma riguardava i legami tra ‘ndrangheta e uomini di fiducia del premier. Con proteste come non se ne vedevano dai tempi dei moti per l’indipendenza e per la caduta del regime sovietico, cinque anni fa gli slovacchi hanno fatto cadere Fico.
Estromesso dal governo, lui per tornarci si è aggrappato ancor di più alla scheggia impazzita dell’Ue, Orbán, e al Cremlino. Nel 2009 era stato Fico, da premier, a portare la Slovacchia nell’Eurozona, e ancora nel 2017 dichiarava che per quanto fosse interessato alla cooperazione con gli altri paesi di Visegrad, per lui gli «interessi vitali» del paese dipendevano anzitutto dall’Ue. La campagna elettorale 2023 è stata invece all’insegna della retorica anti migranti, anti sanzioni, e anti aiuti militari a Kiev: «Non è la nostra guerra».
Fico non si è fatto mancare neppure un incontro con Milorad Dodik, il separatista serbo che – supportato da Orbán e Putin – sta gettando nel caos la Bosnia Erzegovina.
L’AGO CHE SBILANCIA
Riuscirà ora il premier redivivo a dirottare l’Ue? La risposta è in mano a un suo ex compagno di partito, Peter Pellegrini, che da uomo vicino a Fico ne aveva ereditato il governo nel 2018, e due anni dopo ha provato a liberarsi dello stigma di Smer fondando Voce, nuovo partito, che ha il 15 per cento.
Pellegrini ora ha due opzioni, e deve dimostrare nei fatti quanto è davvero distante da Fico. Può accettare il corteggiamento del secondo partito più votato, Slovacchia progressista, che ha preso il 18 per cento: Michal Šimečka, volto di punta e vicepresidente del parlamento europeo, fino all’ultimo invoca un’alternativa a Fico. Oppure Pellegrini può consegnare al filorusso l’ennesimo governo.
La seconda ipotesi è quella più probabile, anche a giudicare dalle prime dichiarazioni di Pellegrini: invoca coalizioni stabili e mette le mani avanti sulla faccenda del supporto a Kiev; la Slovacchia a suo dire, in ogni caso, «non ha più nulla da inviare».
LO SPINTONE REPUBBLICANO
I media di Mosca sparano titoli sulla «vittoria del filorusso Fico», mentre Balázs Orbán, megafono di Viktor Orbán e ospite fisso degli eventi dei think tank meloniani, prevede che «ora Budapest sarà più forte nelle dispute con Bruxelles».
Tutto questo mentre dall’altra parte dell’oceano l’ala oltranzista dei repubblicani tiene sotto scacco la spesa pubblica statunitense, riduce alla debolezza politica il compagno di partito e rappresentante della Camera, Kevin McCarthy, e come fossero uno scalpo riesce a far saltare gli aiuti a Kiev.
Il braccio di ferro tra democratici e repubblicani – ma anche dei repubblicani fra di loro – riguarda il bilancio; per evitare lo shutdown, è stato trovato un compromesso su uno “stopgap bill”, una legge ponte. Ma questo provvedimento tampone non comprende stanziamenti per l’Ucraina: McCarthy li ha stralciati per trovare un margine di manovra con il suo partito, all’interno del quale le pressioni per un disimpegno sul fronte ucraino stanno aumentando già da tempo.
Ovviamente la partita non è finita: ci sono richieste bipartisan perché gli aiuti vengano reinseriti nella versione finale della manovra. Ma intanto al Cremlino le scosse si saranno sentite.