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L’Istat stima un Pil al +0,2% nel secondo trimestre, comunque superiore alle attese. Confindustria: «L’industria frena (-2,4%)» Monacelli (Bocconi): «Paghiamo la dimensione ridotta delle imprese». Rotondi (Cattolica): «Più attenzione ai fondi del Pnrr»
Milano
Un’economia che cresce, ma senza sprint, con un significativo indebolimento nell’industria e con i servizi che vivono soprattutto dei buoni dati di un comparto però “effimero” e a basso valore aggiunto come il turismo. Ci va meglio rispetto ad altri Paesi, innanzitutto la Germania (-0,1%), ma siamo molto dietro alla crescita della Spagna (+0,8%) e in ritardo anche sulla Francia (+0,3%). I dati Istat diffusi ieri mattina regalano all’Italia per il secondo trimestre 2024 soltanto un +0,2% di Pil rispetto al trimestre precedente, quando il dato viaggiava sul +0,3%. Certo, si tratta del quarto risultato consecutivo con il segno più, sottolinea l’Istituto di statistica, evidenziando che «questa continuità della fase di espansione congiunturale, seppure di lieve entità, si accompagna a un rafforzamento del tasso tendenziale di crescita, pari allo 0,9%». Eppure, bisognerebbe aumentare la velocità di crociera per essere certi di centrare il +1% a fine anno fissato dal governo nel Def (risultato ancora alla portata ma a rischio) e per issarsi stabilmente su un orizzonte di crescita di lungo periodo.
Per il momento, la variazione del Pil italiano già acquisita per il 2024 – quella che si otterrebbe se nei prossimi due trimestri la crescita dell’economia fosse nulla – è pari a +0,7% (dal +0,6% del primo trimestre). Nell’ultimo trimestre, in particolare, l’Istat sottolinea che il dato del +0,2% – con un tendenziale allo 0,9% – è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto nel comparto dell’industria e dell’agricoltura, silvicoltura e pesca e di un aumento, viceversa, nel comparto dei servizi. Già Banca d’Italia, due settimane fa, aveva certificato che l’economia italiana cresce solo «a ritmo moderato», spinta dall’esplosione del turismo, dove però il surriscaldamento dei prezzi di alloggi, ristorazione e altri servizi frena la discesa dell’inflazione.
L’industria suggerisce una dinamica molto indebolita nel secondo trimestre. L’indice dell’andamento della crescita Rtt del centro studi di Confindustria ha registrato ieri un calo del -1,6% a giugno, più moderato di quello registrato a maggio. La flessione è diffusa in tutte le aree geografiche, anche se più contenuta al Sud. Viene segnalata una riduzione marginale nelle costruzioni (-0,3%) e moderata nei servizi (1,3%), mentre il calo più significativo si registra appunto nell’industria (-2,4%) dove le prospettive, però, sono di un miglioramento: il 41,6% delle grandi imprese industriali associate a Confindustria prevede infatti un aumento della produzione a luglio. Per Tommaso Monacelli, professore ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano, il problema della crescita limitata – «ormai di lunghissima durata, tanto che servirebbero ritmi ben più elevati di espansione per compensare la perdita del Pil molto ampia degli ultimi 25 anni rispetto ad altri Paesi europei» – ha a che fare con la struttura stessa dell’economia italiana. «La nostra bassa produttività è influenzata dalla dimensione delle nostre imprese, in gran parte piccole – sottolinea Monacelli ad Avvenire –. Le grandi imprese non solo occupano più persone, ma sono sempre in grado di stare al passo della frontiera tecnologica come quella dell’intelligenza artificiale: non sarà scontato riuscire ad agganciare il treno di questa rivoluzione tecnologica. Abbiamo una pubblica amministrazione inefficiente, così come in parte lo è un settore privato in cui i fattori produttivi sono allocati male. Le microimprese fanno poca innovazione e hanno una struttura di controllo quasi sempre familiare, poco aperta al contributo di manager esterni e alle novità di prodotto». Per l’economista della Bocconi, a scontare questo problema sono soprattutto i servizi, settore in cui «mancano le grandi imprese. E siccome i servizi sono il grande comparto delle economie avanzate, avere inefficienze in questo settore mette il freno a mano all’economia ». Nello stesso turismo, il cui boom «non riesce ad essere elemento trainante della produttività», per Monacelli «mancano grandi gruppi di proprietà italiana e l’offerta, come nei servizi legali-assicurativi, è parcellizzata in tante microimprese di lavoratori autonomi». Sulla stessa linea anche Claudia Rotondi, docente di Economia dello sviluppo all’Università Cattolica del Sacro Cuore: «L’Italia vanta un comparto industriale con settori di eccellenza, quel made in Italy capace di affermarsi sui mercati mondiali e di esportare. Per contro, questo settore è caratterizzato da una dimensione media delle imprese molto ridotta e quindi mediamente meno in grado di investire in Ricerca e Sviluppo. Questa minore capacità di investire in innovazione fa sì che la produttività media del sistema Paese sia bassa. Quello dei servizi è a tendenziale bassa produttività, e questo riguarda anche se non soprattutto il turismo».
Secondo Monacelli, a far riflettere è anche il fatto che la crescita dell’economia sia solo moderata pur essendo, l’Italia, il Paese che riceve il maggior stimolo dai fondi del Pnrr. «L’Italia dovrebbe ricevere una spinta superiore dal Pnrr, ma nonostante il governo ritenga di essere a buon punto con la calendarizzazione delle spese questo aspetto non emerge dai dati del Pil. Questo fa pensare che senza il Pnrr la crescita spontanea dell’economia sarebbe molto vicina allo zero. Se pensiamo che il Pnrr ha un orizzonte limitato che non va oltre il 2026 e se guardiamo alle mancate riforme, per il Pnrr per ora siamo al semifallimento: per questo non sono ottimista che nel giro di uno o due anni raggiungeremo tassi di crescita che arrivino all’1-1,5%, livello auspicabile vista la mole di investimenti ma che rimane fuori portata».
Rotondi, da parte sua, osserva come, «a fronte di investimenti privati tendenzialmente limitati, abbiamo un problema di declino degli investimenti pubblici legati a un rilevante stock di debito che impone una spesa per interessi elevata, il che limita le possibilità di spesa. Il Pnrr avrebbe potuto e potrebbe essere l’occasione di destinare risorse per investimenti non effimeri e ad alta ricaduta sul sistema produttivo (ad esempio in infrastrutture). Diventa cruciale una riflessione seria sull’allocazione di queste risorse e sulla capacità dei soggetti che ricevono finanziamenti di impiegarli in modo che abbiano un impatto positivo sulla crescita». Secondo la docente dell’Università Cattolica è importante poi considerare altri due aspetti, occupazione e diseguaglianze. «I dati sul numero di occupati non sono negativi, ma le cifre sono spesso insidiose: risultano occupate persone che lavorano un limitato numero di ore a settimana; occupate in lavori “poveri” ovvero a bassa produttività; in lavori non ben retribuiti – evidenzia -. I dati aggregati inoltre, non dobbiamo mai dimenticarlo, nascondono il tema delle disuguaglianze. Asvis e Caritas hanno riferito nei giorni scorsi che quasi il 10 per cento della popolazione italiana vive in uno stato di povertà assoluta, rispetto al 3 per cento del 2010. L’Istat stesso a marzo ha pubblicato stime che attestano lo stato di povertà di più di due milioni di famiglie italiane. Siamo dunque di fronte alla grande questione della stagnazione, che richiede importanti politiche pubbliche, oltre che di partnership pubblico-private».