Arrivammo a Genova un paio di giorni prima. Il Dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’Interno organizzò un tour per Genova, alla vigilia del G8, prima metà di luglio del 2001. All’ingresso del Palasport, trasformato in una immensa sala benessere, con attrezzi da palestra e altro, venne distribuito un opuscolo. Un vademecum delle buone maniere. Erano gli anni dell’ambizioso progetto del “poliziotto di prossimità”, come un bobby inglese di quartiere, un amico, un confidente, una guida. Era tutto molto bello, sulla carta. Poi iniziò il G8. I black bloc, le cariche dei carabinieri, gli assalti alla “zona rossa”, la morte di Carlo Giuliani. La devastazione di Genova.
Tre giorni terribili, tre epicentri diversi di violenze: la piazza, la caserma Bolzaneto e la scuola Diaz. In quelle ore cambiò il clima del Paese. Qualcuno, un dirigente della Celere, Fournier, parlò di “macelleria messicana”. A sinistra, si parlava esplicitamente di clima “cileno”. Fu una pagina nera della democrazia. Un errore scegliere Genova per tenere il vertice dei potenti della terra. Indifendibile dal punto di vista della orografia della città. Un errore l’organizzazione. Ricordo, durante le ore convulse dei violenti scontri di piazza, colonne di mezzi vagare per la città senza conoscere la meta. Un mezzo in testa a una colonna, davanti alla questura, rallentò: “Collè… dove dobbiamo andare per arrivare in via…”.
Fu il fallimento della macchina organizzativa. E a Genova abbiamo imparato che la responsabilità penale è individuale. Lo abbiamo visto con i fatti della scuola Diaz, scambiato per un covo di mafiosi o terroristi. Per i fatti della Diaz, fu condannato il migliore gruppo dirigente della Polizia di Stato, che si stava formando in quegli anni.
È una ferita ancora oggi aperta. La magistratura e una parte dell’opinione pubblica volevano i “colpevoli” a prescindere. Certo, i condannati non sono stati individuati come i colpevoli dei quasi cento massacri di ragazzi. Per loro, per i vertici del Viminale, la responsabilità penale è stata ritenuta collettiva.
Genova è il prologo per capire le altre tragedie, quello che sta accadendo oggi nelle forze di polizia. Il sociologo Maurizio Fiasco ci rassicura che gli arresti (della settimana scorsa) dei poliziotti di Verona ci raccontano di un episodio di “devianza di gruppo dentro gli apparati”. Da Genova a oggi, purtroppo, sono stati molti, troppi gli episodi di “devianza di gruppo”: Piacenza, gli agenti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere (vedi qui) e tanti altri singoli episodi. È molto complicato ragionare con serenità su questi fatti, perché si rischia di essere strumentalizzati, non compresi, esposti alla gogna.
Intanto, partiamo da una verità storica, che raccontava un alto vertice del Viminale ai tempi del G8 di Genova. Negli anni Sessanta e Settanta le forze di polizia sono cresciute per gestire le piazze sindacali e le prime violenze politiche. Prefetti e questori hanno frequentato l’università della strada e si sono laureati, tutto sommato, con la sufficienza. Certo, ricordiamo i morti e i feriti di Genova, Reggio Emilia, Battipaglia, Reggio Calabria, Avola, Eboli.
Poi abbiamo conosciuto il terrorismo rosso e nero. E gli apparati hanno dovuto “riconvertirsi” in poco tempo. Quanti colpi presi, ma alla fine magistratura e apparati repressivi hanno vinto. A un costo alto, è vero. Ricordate la strategia della tensione? Le stragi nere ma “atlantiche” per stabilizzare un Paese che andava a sinistra?
Poi ancora è arrivata la mafia, lo stragismo mafioso, l’insurrezione armata dei Corleonesi. E siamo diventati i migliori investigatori delle grandi organizzazioni criminali.
Ricordare tutto questo serve a capire intanto che i “delicatissimi” apparati repressivi hanno bisogno di essere guidati, controllati. Durante i fatti di Genova, si puntò il dito sulla discussa visita alla sala operativa delle forze di polizia del neovicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini. Allora, fu un pretesto a sinistra per autoassolversi. Le forze di polizia hanno la gestione, il monopolio della violenza. Sono solo loro legittimate a usarla, a certe condizioni, proporzionata all’offesa ricevuta, e alla necessità di ristabilire le regole violate.
Quante volte, nelle piazze “degenerate”, abbiamo assistito a un abuso dell’uso della forza? E quante volte, a ogni abuso, si è aperta la polemica sulla necessità che poliziotti, carabinieri, o finanzieri che siano abbiano l’identificativo bene in vista? Adesso prime timide telecamere documentano il lavoro delle forze di polizia in servizio. Ma siamo ancora a un livello insufficiente. Il punto vero è il clima che si respira nel Paese. Ricordate il ministro dell’Interno, Matteo Salvini? Una vergogna per le istituzioni, che ha fatto danni veri. Non crediamo che vi sia il problema della selezione nelle assunzioni del personale: dai poliziotti, carabinieri e finanzieri semplici, ai graduati sottufficiali e ufficiali. Sicuramente i quiz rispondono alle esigenze formative. Sicuramente tutte le scuole insegnano i valori della Costituzione.
Ma nonostante ciò, si crea un cortocircuito. Perché? Per l’aria che si respira? In parte è così. Quando un governo e i suoi rappresentanti indicano il “nemico” nei fragili, negli immigrati, nei diversi, nei tossicodipendenti, la scelta delle vittime dell’“arancia meccanica” di Stato, da parte dei poliziotti violenti, non è casuale. A Verona, cinque.
C’è un nesso tra le politiche repressive del governo e la violenza delle forze di polizia? Oppure c’è un fenomeno di “mele marce”, e dunque possiamo dire che la situazione non è compromessa? In realtà, dobbiamo essere preoccupati, perché c’è qualcosa di più delle semplici mele marce. Un ambiente che non ci piace, che fa crescere gli odii, le diseguaglianze e le violenze. Dobbiamo riflettere, prima che sia troppo tardi.
Nella foto: l’assalto alla scuola Diaz di Genova nel luglio 2001ù