Qual è il rapporto tra il filosofo Giovanni Gentile e il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli?
Quest’ultimo ha presentato una proposta di legge per riqualificare come reato, punibile con la reclusione, gli atti osceni in luogo pubblico (oggi illecito amministrativo), prevedendo l’attenuante per chi abbia provveduto ad occultarli attraverso «l’appannamento o la copertura dei vetri» dell’autovettura dove li si compie.
Cosa c’entra costui con l’insigne esponente dell’idealismo italiano? In apparenza, nulla. Ma, a ben vedere, i nessi sono più numerosi e robusti di quanto si creda.
Per comprenderlo, partiamo ancora da Ignazio La Russa e da quel mirabile esemplare di epistolario giustificazionista che è la sua cosiddetta “lettera di scuse”. Vi si trovano, sì, delle tiepide scuse morbidamente acconciate ma, soprattutto, una strabiliante affermazione: “Ho sbagliato a non sottolineare che i tedeschi uccisi in via Rasella fossero soldati nazisti, ma credevo che fosse ovvio e scontato”.
Tanto ovvio e scontato che nell’intervista aLibero, da cui nasce tutta la polemica, lo stesso La Russa aveva detto che “quelli uccisi in Via Rasella non erano dei biechi nazisti delle Ss”.
Ma cosa induce la seconda carica dello Stato a infilarsi in questa spirale di balle che pretendono di confutare altre balle? Innanzitutto, la convinzione che nel clamore esagitato dell’opinione pubblica, ciò che conta è l’urlo, il dileggio, l’oltraggio. E che, di questa controversia – nonostante il rimbrotto della premier – rischia di rimanere solo lo sprezzo nei confronti della Resistenza. Poi, la volontà di fare di tutto ciò una vera e propria battaglia culturale ingaggiata contro quella che la destra definisce “l’egemonia della sinistra”.
Di tale egemonia, il ruolo attribuito alla Resistenza contro il nazi-fascismo è pilastro essenziale: eroderlo significa mettere in discussione un’intera cultura costituzionale. In cinque mesi, la destra ha lavorato alacremente in questa direzione mirando a produrre quella “crepa nel senso comune” di cui ha scritto Ezio Mauro su queste pagine.
Quel senso comune è l’espressione di una mentalità collettiva che, per quanto indebolita, tutt’ora sopravvive come retaggio, magari solo residuale, delle grandi culture politiche della storia nazionale: dal solidarismo cristiano al progressismo al liberalismo. Un senso comune che si affida a valori ormai in crisi e a interpretazioni della realtà sempre meno capaci di leggere il nuovo mondo, e che tuttavia resiste.
Ora l’offensiva culturale della destra lo aggredisce violentemente; la meritocrazia come parametro esclusivo della selezione che prescinde da ogni considerazione sulle condizioni materiali di partenza; l’intervento sul linguaggio attraverso un vocabolario, per così dire, patriottico (lotta al forestierismo, preponderanza assoluta del genere maschilee ricorso ossessivo al termine “nazione”); e, soprattutto, una politica proibizionista nei confronti dell’autodeterminazione individuale, dalle relazioni tra persone dello stesso sesso ai vincoli autoritari sulle scelte di genitorialità, fino alle diete alimentari e alle condotte nutrizionali: carcere fino a due anni per chi istiga all’anoressia e divieto di coltivazione della carne sintetica.
Sono altrettanti messaggi morali che pretendono di intervenire sulla soggettività personale, condizionando stili di vita e forme di relazione, consumi e preferenze. In tal modo l’autorità pubblica intende interferire con la vita delle persone, determinandone le scelte fin nella sfera più intima. Emerge così un orientamento che porta inevitabilmente verso lo “Stato etico”. Quest’ultimo, in tale visione, non è l’istituzione posta a garanzia dei diritti degli individui, bensì, la più alta espressione della vita spirituale della comunità umana. Ne discende il ruolo pedagogico e formativo dello Stato teorizzato da Giovanni Gentile. Qui ritorna il discorso sulla Resistenza. Le idee di libertà, di autonomia del singolo e di espansione dei diritti poggiano su un impianto di senso comune e di mentalità che a sua volta affonda le proprie radici, per quanto ormai esili, nei momenti fondativi dell’Italia repubblicana: e, dunque, nella rottura determinata dalla guerra di Liberazione.
Per questa ragione, indicare nell’ “umiliazione” una risorsa importante delle strategie educative, paventare l’immigrazione come un’insidia per l’identità della nazione e banalizzare la storia, neutralizzando la scelta antifascista e riducendola ad una delle tante possibili: tutto questo fa parte di quella “battaglia culturale” di cui si diceva e del tentativo di ribaltare il senso della nostra storia, azzerando o comunque ridimensionando il significato del conflitto fascismo – antifascismo, che fu anche lotta mortale e all’ultimo sangue. E ciò aiuta a comprendere la strage di Via Rasella.
Può apparire singolare, ma questa guerriglia culturale e identitaria che si manifesta come revanchismo e come voglia di rivalsa da parte di chi – pur godendo di tutti gli agi della democrazia – si è sentito per decenni esule in patria, assume un ruolo crescente nella strategia della destra.
Mentre sul piano dei programmi economico sociali e della politica estera il governo sembra adottare una linea sostanzialmente continuista, è proprio nei processi di formazione dell’opinione pubblica e degli orientamenti collettivi che investe le maggiori risorse. Lo strappo inferto dalle parole di La Russa all’immagine della Resistenza non sarà privo di conseguenze. Viene voglia di iscriversi all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia o, i più moderati tra noi, alla Federazione Italiana Volontari della Libertà.