L’attore- autore debutterà a Spoleto con uno spettacolo su Cosa nostra e sulla sua percezione
diEleonora LombardoC’è prima di tutto la condanna del patriarcato amorale nella scelta di Davide Enia di intitolare “Autoritratto” il suo prossimo spettacolo sul rapporto nevrotico tra società civile e Cosa nostra .
Una citazione dell’opera di Carla Lonzi, perché si può parlare di alcuni fenomeni solo dopo «un’autoinvestitura come soggetto», fondendo la dimensione privata con quella pubblica. L’attore-autore, allo scoccare dei cinquanta anni, affronta per la prima volta la mafia con uno spettacolo che lo vedrà solo sul palcoscenico a dimostrare cosa è accaduto a una generazione dove l’io è inevitabilmente un noi e dove ciò che prima era taciuto è esploso violentemente con le bombe del ’92. “Autoritratto” debutterà al festival di Spoleto il 29 giugno . Enia dice subito: «Non voglio neanche pensare che non riusciremo a portarlo a Palermo».
Cosa ha determinato il rapporto nevrotico con Cosa nostra?
«Cosa nostra è stata o mitizzata o rimossa, mai trattata per quello che è. La mia infanzia è costellata dalle bombe della mafia così come dalle macerie della seconda guerra mondiale, era normale, nell’intercalare, parlare di “ammazzatina”. Eppure, i genitori non parlavano di mafia — i miei come quelli dei miei amici — non avevano gli strumenti perché nessuno glieli aveva forniti, abitavamo il regno dell’implicito avevamo santificato la frase “a megghiu parola è chidda ca un si dici”. Nulla viene spiegato. Si sapeva che ci sarebbe stato l’attentato a Falcone e dopo quello a Borsellino. Nessuno lo aveva detto, ma tutti i segni disseminati nella città raccontavano questo. La nevrosi nasce dal fatto che non se ne parlava e non se ne parlava in famiglia, a scuola, tra amici, tra fidanzati. Eravamo dentro un grande implicito che anziché venire sdipanato e quindi affrontato, scavava dentro una voragine per cui — sto per dire una cosa terribile-, le bombe sono state una liberazione. Le bombe sono state il potersi dire: ecco perché ero così inquieto, ecco perché respiravo questa violenza, ecco cos’era quello che nessuno mi stava dicendo. Ecco perché stavo così male, cos’è davvero Cosa nostra. Lo sentivamo ma non lo sapevamo dire».
Lei si ricorda dov’erano quando
hanno ucciso Falcone e Borsellino?
«Il mio lavoro comincia proprio così, io — che ho una memoria molto potente — non mi ricordo nulla del 23 maggio, è stato talmente gigantesco l’impatto emotivo che ho rimosso quella giornata, non mi ricordo dove fossi e con chi e in che modo ho appreso la notizia. Ho il vuoto e continuo ad avere il vuoto. Di contro, ricordo perfettamente di Borsellino, perché in mezzo alle bombe ho fatto la maturità».
Affrontare la mafia allo
scoccare dei 50 anni ha a che fare con una sorta di liberazione?
«È un modo, dopo il primo momento di utilizzo del teatro come mappa cartografica introspettiva dell’abisso, di utilizzarlo per quest’altro movimento di introspezione che al tempo stesso è intima, personale e collettiva».
Cosa è cambiato dopo le bombe?
«Dopo l’ostentazione della ferocia non si è potuto più fare finta di niente, che è un cambiamento epocale. Non puoi fare finta dinulla, non puoi più chiamarle “ammazzatine”, non puoi più ignorare che persone sono state ammazzate perché si rifiutavano di pagare il pizzo, che la strategia di Cosa nostra è il mantenimento del potere tramite l’eliminazione fisica, non puoi più fare finta che determinati modi di pensare e parlare e di agire hanno come esito la violenza feroce che non rispetta la vita umana. Poi cambia la percezione, non si può fare finta che questa cosa non ci appartenga. Io personalmente ho iniziato a indagare quanto avevo introiettatoquel modello patriarcale di ostentazione del rapporto di forza e ho scoperto che lo avevo introiettato tantissimo».
Parlando di modelli amorali introiettati, gli studenti vittime della truffa della falsa università bosniaca sono vittime del sistema?
«Ci troviamo in un momento in cui, pagando un prezzo emotivo altissimo, si cerca l’escamotage perché le generazioni dei padri ci hanno fottuto non il futuro, ma il presente. È innegabile che ci troviamo dentro, da almeno cinquanta anni, un conflitto generazionale che ha dei vincitori, i nostri padri e nonni, e ha degli sconfitti, ovvero figli e nipoti. Noi abbiamo perduto una battaglia che non sapevamo neanche di combattere. Questo ha portato a un tentativo di sopravvivenza, ovvio che in un modello di patriarcato amorale come il nostro — come il familismo — l’escamotage non solo è concesso, è premiato. Ci sono gli sconfitti, dalla mia generazione a scendere, e i vincitori, ovvero i padri che con la complicità delle madri hanno sbranato come fosse carne cruda il nostro passato e questo nostro presente. Il futuro non esiste più».
Intravede una speranza di cambiare modello di pensiero?
«Ho chiesto a tante persone che cos’è la mafia, un ex dirigente della Dia mi ha detto è un modo di essere e di pensare che si trova anche abbastanza lontano dalle aule giudiziarie e dalle camere della morte e che soprattutto oggi ha bisogno non di un esercito per contrastarla, ma di un rinnovamento culturale. È quello che diceva Bufalino: “Per sconfiggerla ci vuole un esercito di maestri elementari”».
Che messaggio arriva dal supporto di tanti artisti della città alla candidatura di Alfio Scuderi a direttore del Biondo?
«È una persona che conosco da sempre, che mi ha sempre sostenuto, se fosse lui io cascherei in piedi. Ma sarei un ipocrita se non riconoscessi che io e lui abbiamo un pregresso di stima e di affetto molto grande. E ho detto che è una persona con la quale si può ipotizzare un ragionamento artistico su Palermo.
Ragionamento che non sempre è stato possibile fare. È innegabile che tanti anni fa non era possibile avere un’interlocuzione perché ci tagliavano fuori».