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22 Settembre 2024Critica letteraria Nel 1923 Giacomo Debenedetti, poco più che ventenne, «lanciò» il poeta triestino sottraendolo all’etichetta di crepuscolare. Quel testo e i saggi successivi su di lui, riuniti da Carocci
Non è raro che, nel nostro Novecento, il nome di un poeta si leghi a quello di un suo particolare lettore: qualcuno che con anticipo ne abbia riconosciuto l’originalità o illustrato la parabola, indagato i sottintesi e, in definitiva, abbia aperto efficacemente la strada alle indagini critiche successive. Il più noto esempio di «gemellaggio», in tal senso, è forse dato dalla «lunga fedeltà» di Gianfranco Contini a Montale, a cui andrà aggiunta l’alleanza fra Leone Piccioni e Ungaretti e, più recente, il sodalizio fra Stefano Agosti e Zanzotto.
Per quanto riguarda Umberto Saba, già un giovane Montale aveva notato che «si può dire debba al Debenedetti gran parte della sua giusta reputazione». Amici sin dagli anni venti – quando Saba, reduce dalla prima pubblicazione del Canzoniere, veniva ancora considerato un «minore» –, i due si incontrano nell’ambiente della rivista torinese «Primo Tempo», sulla quale nel 1923 Giacomo Debenedetti pubblica un primo, corposo saggio sull’opera del poeta triestino. Per Saba, che si vede finalmente affrancato dalla fastidiosa etichetta di poeta «crepuscolare» dopo che Scipio Slataper lo aveva stroncato, agli esordi, su «La Voce», si tratta «di un lancio in piena regola»; per Debenedetti, che all’epoca ha poco più di vent’anni, l’articolo equivale a una sorta di investitura, non solo in qualità di primo e più significativo critico di Saba ma anche come interprete di quella letteratura triestina che, con Svevo, stava progressivamente guadagnando attenzione e consensi.
È questo l’inizio di un rapporto durato decenni, talvolta travagliato – basti ricordare la clandestinità a cui entrambi furono costretti durante la guerra, o il proposito di suicidio (poi rientrato) di Saba, che a Parigi si era fatto consigliare «un metodo di eutanasia che consisteva nell’ingerire una dose letale di sonnifero, bevendoci sopra molto cognac»: lo racconta Debenedetti nel ’45 –, ma sempre segnato da arricchimenti reciproci e da un’ampia condivisione di interessi, da quello per la psicoanalisi alla comune passione per Proust, a sua volta in primis illuminato in Italia dagli studi debenedettiani.
A leggere gli interventi di Debenedetti su Saba Scritti e saggi (1923-1974), riuniti per la cura di Stefano Carrai (Carocci editore «Frecce», pp. 208, € 22,00), non si ha solo l’impressione di trovarsi davanti ad alcune delle più notevoli pagine di critica letteraria del nostro Novecento, ma anche di ripercorrere le tappe di tale rapporto, per cui a emergere è tanto il progressivo coinvolgimento umano e affettivo di chi scrive quanto l’efficacia di un occhio critico d’eccezione, che osserva la sua materia.
Perché se nel saggio del ’23 e nel successivo del ’28, ospitato da «Solaria», spicca la perspicacia di Debenedetti nell’individuare nella poesia di Saba un’alternativa alla linea ermetica ugualmente originale e moderna, fondata su una parola che «è sempre quella domestica, la prima venuta: (…) senza storia», «dove trovi più di purità che di splendore», negli interventi successivi il rilievo stilistico si accompagna a notazioni via via più private, come il sospetto di trovarsi di fronte alla «psicologia di un perseguitato da qualche cosa di nascosto nelle radici, (…) quasi sia stato mescolato nel suo essere fin prima della nascita» – pur non esplicitata, trapela qui un’allusione alla tormentata accettazione sabiana della propria identità ebraica. O ancora, nelle stesse pagine del ’46, traspare un approccio quasi intimo all’opera del poeta triestino, per cui «colpisce» in Saba «l’impazienza, qualunque cosa gli succeda, di confidarla alla poesia. (…) La situazione è paragonabile (…) a quella del bambino che, comunque la vita lo tocchi, gioia o dolore, ripara presso la madre, posa la testa sui suoi ginocchi» – alla metafora è ispirato il titolo del saggio, Il grembo della poesia, che ammicca a una delle immagini cui forse Debenedetti è più affezionato, quella di un poeta nel quale è «rimasto, inalterabile, un fondo di fanciullo e di popolano» e che allora si qualifica proprio per la «sensualità onesta» e la «fondamentale sincerità» che il suo critico gli ha riconosciuto, come evidenzia Carrai nella dettagliata introduzione ai saggi.
Il che non significa affatto ridimensionare la complessità, anzitutto psicologica, della poesia di Saba, la quale nella magistrale lettura del Canto a tre voci può assumere anche i tratti di un «esorcismo» che «fa vomitare fuori i diavoli» o di una «compensazione narcisistica», «la via attraverso la quale il poeta poteva finalmente arrivare a piacersi, ad amarsi, almeno come poeta»: un’interpretazione che insomma sfrutta gli strumenti della psicoanalisi, a cui entrambi si erano sottoposti, per chiosare versi che davvero incarnano la traduzione dell’«innamorato pensiero» di Narciso, «Io non so più dolce cosa / di pensarmi. Il puro amore / di cui ardo, dal mio cuore / nasce, e tutto a lui ritorna».
Ha di nuovo ragione Montale quando, presentando Il romanzo del Novecento di Debenedetti nel ’71, nota che Saba «sembra tagliato su misura, nato per essere capito da lui» – intendendo forse anche suggerire che «ognuno riconosce i suoi»… – : basti a testimoniarlo la chiosa sui «cattivi maestri», Weininger, Nietzsche, Freud, che il poeta si è scelto e da cui avrebbe «tratto una chiave molto servizievole per interpretare il mondo, piuttosto che un aiuto a placare il suo destino», il che già suggerisce una lettura del Canzoniere come raccolta «assistenziale, (…) che aiuta e illumina gli uomini in ciò che un altro poeta contemporaneo ha battezzato il mestiere di vivere».
Insomma, la qualità di queste pagine si dà tanto nell’eccezionale capacità interpretativa di Debenedetti, del quale si rivela, in più occasioni, anche il metodo – si nota ad esempio la costante attenzione alle figure che popolano la poesia del Canzoniere, una sorta di «romanzo» ma drammaturgico, in cui «tutto è scena, è personaggio» –, quanto nelle occasioni in cui affiora la voce dell’amico, più che del lettore, a comporre il ritratto fedele di un Saba uomo. Così, Storia e cronistoria del Canzoniere, che pure è dedicata a Debenedetti, è un «irritante e adorabile, infantile e sapientissimo libro» e il suo autore è ricordato, nella commemorazione tenuta per la scomparsa di Saba nel ’57, come «un uomo (…) pronto a passare dalla dolcezza all’aggressività», che «mette il broncio di fronte a ciò che doveva allietarlo» come una «forma di scongiuro da parte di chi per costituzione temeva dalla vita il male e l’offesa».
La nota di Carrai, oltre a ripercorrere e collocare storicamente gli interventi debenedettiani, fra cui la prefazione alla prima edizione rivista del Canzoniere, del ’45, e le lezioni sulla poesia sabiana tenute all’Università di Roma alla fine degli anni cinquanta, sottolinea anche la notevole diversità caratteriale fra il poeta e il suo critico, il quale avrebbe compensato, con affabilità, la «suscettibilità e (…) megalomania difficilmente tenute a freno da Saba». Non è raro in effetti scorgere, nelle Scorciatoie e raccontini, l’ironia lapidaria, spesso tagliente del triestino; fra le riflessioni del libro se ne trova più di una direttamente rivolta a Debenedetti, al suggerimento del quale l’autore deve fra l’altro la bipartizione del titolo. L’episodio è raccontato nella premessa che apre i Raccontini: «La cosa andò così. Leggevo al mio amico Giacomo Debenedetti la terza serie di Scorciatoie. Egli ascoltò fino alla fine; poi “Sono belle – mi disse – ; ma (…) alcune di esse hanno già cambiato ritmo. Sono piuttosto dei raccontini”». «Si vede che», conclude Saba, «anche un critico può (…) servire a qualcosa».
Reduci dalla lettura di questo volume, pare proprio di figurarselo, il poeta alla scrivania, col «broncio avverso di quando era contento» e con cui Debenedetti, affettuosamente, l’ha ricordato.