Carlo Cottarelli
Il governo ha rispettato la promessa di avere la legge delega sul fisco approvata prima della pausa estiva. Ho già più volte notato come questa legge consegni al governo un enorme potere discrezionale nel decidere aliquote, scaglioni, deduzioni, detrazioni delle varie imposte, ossia come sarà distribuito il carico fiscale: infatti i decreti legislativi che il governo è autorizzato a emanare entro 24 mesi dovranno tornare in Parlamento solo per un parere non vincolante. Il nostro Parlamento ha quindi rinunciato a quella che è l’essenza del potere legislativo dai tempi della Magna Carta, cioè la capacità impositiva. Ma non voglio tornare su questo argomento. La questione che voglio discutere oggi è invece quella delle coperture.
Una premessa: la riforma ha due finalità. La prima è quella di semplificare il sistema di tassazione e questo, già di per sé, sarebbe un importantissimo risultato. Vedremo cosa conterranno in proposito i decreti legislativi. La seconda finalità, chiaramente identificata nell’articolo 2 della legge, che fissa i «Principi generali del diritto tributario nazionale», è di «stimolare la crescita economica e la natalità attraverso l’aumento dell’efficienza della struttura dei tributi e la riduzione del carico fiscale». Ecco, la seconda finalità della riforma è la riduzione del carico fiscale, il che, presumibilmente significa ridurre la pressione fiscale ossia il rapporto tra entrate fiscali e Pil. Del resto la «riduzione della pressione fiscale per famiglie, imprese e lavoratori autonomi» era una fondamentale promessa del programma elettorale del centrodestra.
La legge delega non fissa obiettivi specifici di riduzione della pressione fiscale. Che prospettive ci sono? Partiamo dal quadro di finanza pubblica. Secondo il Documento di Economia e Finanza (Def) di aprile, il deficit pubblico dovrà scendere dal 4,5% del Pil nel 2023 al 3,7% nel 2024, al 3% nel 2025 e al 2,5% nel 2026. Lasciamo perdere la questione della coerenza di questi obiettivi con le regole europee che sono in fase di ridefinizione.
Dal punto di vista puramente macroeconomico, non vedo molti spazi per finanziare in deficit (cioè alzando questi obiettivi) il taglio delle tasse.
Teniamo conto di tre fatti. Primo, una volta esauritosi l’effetto (perverso) dell’inflazione sui risparmi degli italiani, che è la causa principale del calo del rapporto fra debito pubblico e Pil nel 2023, ridurre il debito pubblico diventerà più difficile. Il sopra indicato tracciato per il deficit comporta una riduzione solo modesta del debito nel periodo 2024-’26.
Secondo fatto: nel 2019, ultimo anno pre-Covid, il deficit pubblico era dell’1,5% del Pil. Un aumento del deficit era inevitabile, visto che, con la caduta del Pil dovuta al Covid, le entrate pubbliche scendevano e le necessità di spesa aumentavano. Ma ormai l’emergenza Pil è passata. Nel 2024, secondo il governo, il Pil dovrebbe essere di circa il 2% sopra il livello del 2019. Il deficit pubblico, invece, sarebbe ancora più del doppio di quello pre-Covid. Andare oltre sembra difficile.
Terzo fatto: i mercati finanziari vedono attualmente l’Italia come il paese più a rischio nell’area euro: il nostro spread non è altissimo, ma, a circa 170 punti base, è il più alto tra quelli di tutti i paesi euro, 50 punti base sopra quello greco.
Tutto questo significa che, se si vuole ridurre la pressione fiscale, rispetto alla situazione a legislazione corrente, non lo si può fare in deficit: occorre agire sul lato della spesa (a parte 4 miliardi che il Def segnalava come già messi da parte per il 2024). La spesa per interessi è però prevista aumentare tra il 2023 e il 2026 di quasi un punto percentuale di Pil, per cui il governo dovrà remare controcorrente. Non è finita qui. Anche solo per rendere strutturali i tagli di tasse temporanei introdotti negli anni scorsi, compreso nel 2023, ed evitare, quindi, un aumento della pressione fiscale rispetto a quest’anno, servono circa 10 miliardi.
Occorrerà quindi lavorare, e parecchio, sul lato della spesa. Il governo ha spesso parlato della drastica riduzione delle cosiddette “spese fiscali”, ma, al di là del nome, queste “spese” sono deduzioni e detrazioni fiscali, ossia minori tasse: se le tagli per finanziare la riduzione delle aliquote di tassazione, la pressione fiscale non si riduce. Perché si riduca devi andare a intervenire sulle spese vere e proprie e per farlo non si potrà più contare (si spera) sui tagli, lineari ma meno visibili, realizzati nel 2022-’23 attraverso l’inflazione: occorrerà prendere decisioni politicamente difficili per tutta la spesa primaria. Il rischio è che si vada a incidere, di nuovo, su aree cruciali come la pubblica istruzione e la sanità, i cui stanziamenti sono stati già pesantemente erosi dall’inflazione nel 2021-23.
In conclusione, abbiamo una legge delega ma trovare le coperture necessarie per ridurre il carico fiscale, la cosa che forse più interessa agli elettori, non sarà per niente facile.