MILANO — Il vicepresidente del consiglio Matteo Salvini, dopo la morte del giovane Ramy e gli incidenti al quartiere Corvetto, ha parlato di «emergenza nazionale». Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi ieri è arrivato in prefettura promettendo rinforzi per garantire l’ordine pubblico nei quartieri a rischio. Il sindaco della città, Beppe Sala, ha chiesto di «non drammatizzare» ma ha anche ammesso qualche carenza nella presenza di centri dedicati ai più giovani nelle periferie, fermo restando che «Milano resterà una città accogliente».
Arcivescovo Mario Delpini, lei che ha fatto una visita pastorale in tutte le zone della Diocesi ambrosiana, ha toccato con mano l’emergenza nazionale nelle periferie e in particolare al quartiere Corvetto?
«Sinceramente, non credo di poterlo dire. La risonanza mediatica che hanno fatti di cronaca come quelli appena accaduti, finisce per catalizzare il gusto per la catastrofe, piuttosto che l’interpretazione sincera della realtà. Noi come chiesa siamo presenti in modo capillare su quei territori, a volte ne subiamo le conseguenze, con vandalismi agli oratori. Ma in quel quartiere ci siamo da tempo, con progetti significativi in collaborazione con Fondazione Cariplo. Magari non siamo la soluzione di tutti i problemi, ma non mi pare si possa parlare di un ghetto abbandonato dove non c’è niente».
Lei è stato anche in quei luoghi dove ci sono state notti di rivolta?
«Sì e ho visto un quartiere dove abita gente normale, che fatica, lavora e manda a scuola i figli. Ci sono tanti presìdi, scuole, oratori, forze dell’ordine. Ci vorrebbe una lettura meno catastrofica, ma più penetrante e costruttiva della realtà.
Noi non siamo lì per fare allarmismo,ma per provare ad aiutare. Il Corvetto è simile a tanti altri quartieri, con le sue case, magari un po’ degradate. E poi, i mercati pieni di gente che fa la spesa e dialoga, le scuole, le chiese.
Non lo definirei una banlieue . È un posto abitato da gente che ha problemi diversi da quelli di chi vive nel centro di Milano, dove ci sono solo le banche e le vetrine del lusso».
Milano è una città sempre più a due velocità. Forse è questo a innescare la reazione rabbiosa.
«La città scintillante è in centro, mentre fuori, negli altri quartieri che non mi piace chiamare periferia — l’urbanistica ha una sua articolazione — ci sono problemi economici, di solitudine, ma non sono un deserto».
Questi ragazzi arrabbiati che non si riescono a integrare, le cosiddette baby gang straniere sono un pericolo grave per le città?
«Anche questa è una categoria troppo generica. In quei quartieri ci sono servizi capillari, in tanti lavorano per creare integrazione. Ci sono scuole con classi multietniche, che fanno un lavoro egregio. Poi ci sono le parrocchie con gli oratori dove si accolgono e integrano persone da ogni parte del mondo e che passano il tempo assieme».
Sono altre le istituzioni che latitano?
«Non direi. La scuola c’è, il Comune c’è. Il disagio dei giovani che inquesto momento sembrano mettere a rischio la sicurezza e la serenità dell’abitare, andrebbe esplorato. È un malessere che non classificherei in modo superficiale, accostandolo a quello delle banlieue francesi. Invece che procedere per stereotipi, bisognerebbe andarci a parlare con questi ragazzi e con i loro famigliari, ascoltarli, come fanno la Caritas e i servizi sociali pubblici».
Forse queste seconde generazioni patiscono perché non si sentono riconosciute come italiane?
«Può essere, indubbiamente questo tema dell’essere italiani e rispettare la terra dove abitano e il Paese che li ha accolti, dovrebbe stare a cuore alle istituzioni. Nessuno deve sentirsi solo “tollerato”. Ciascuno deve essere capace di rispettare le leggi, ma anche di veder rispettati i propri diritti. Non so come interpretare le reazioni arrabbiate dei giorni scorsi, non so se siano solo un riflesso emotivo per la morte di un amico, quindi un caso circoscritto, o piuttosto un disagio generazionale».
Qualcosa cova sotto la cenere, qui come in altre periferie multietniche dove c’è disagio economico e culturale?
«Certo, il disagio economico, abitativo, relazionale predispone a reazioni scomposte. Ma quando incontro le famiglie straniere vicine alla comunità cristiana, le sento grateper il pronto soccorso che la chiesa garantisce con l’oratorio, con gli spazi aperti a tutti. Mentre i figli fanno il doposcuola, le madri stanno fuori tranquille a chiacchierare e a fare merenda. Quindi, io vedo un’immagine molto meno drammatica di quella che emerge in questi giorni, dalla narrazione dei titoli dei giornali, che riferiscono in fondo episodi molto circoscritti».
L’invio di rinforzi alle forze dell’ordine è necessario?
«Servono le relazioni. Quel che rende sicura una città non è che ci siano le porte blindate sulle case o che ci siano i militari per strada. Serve stabilire relazioni fra persone che si rispettano e che cercano di capirsi, perché non sempre effettivamente è facile farlo. Ma io credo che studiare assieme, pregare assieme, giocare assieme e cantare assieme siano modi per creare quel senso di appartenenza che è poi il segreto per rispettare la propria casa, la propria strada, il proprio quartiere».
Si parla di emergenza, ma lei ha spesso detto che la migrazione è un fatto strutturale, ha dedicato anche un sinodo alla “chiesa dalle genti”.
«Bisogna che le istituzioni tutte coltivino un’idea un pochino più lungimirante di città e delle popolazioni che vi si muovono. La migrazione nella comunicazione pubblica viene ridotta al tema degli sbarchi e dei rifugiati, mentre la massa degli immigrati è composta da persone che vivono qua, lavorano e tengono in piedi il Paese, come fanno gli italiani. Certo, ci saranno delle situazioni di disagio che facciamo fatica a raggiungere, che non si lasciano troppo avvicinare perché sono chiuse. Magari si avvalgono dei servizi che la città e la chiesa offrono, ma stentano a trovare ragioni per familiarizzare. È un tema di rapporti, di amicizie, di vicinato, di collaborazione. È un lungo, complesso lavoro che ci aspetta».