Lei è una donna di buoni studi e incredibile ambizione, simbolo di una nuova fase del femminismo: la piena presa del potere. L’intreccio, buono solo per una nota di colore laterale, pure, avvenendo sotto lo stesso cielo, nelle stesse ore, è l’ennesimo esempio che alcuni destini di sciolgono mai. Nemmeno quando vanno in rovina – lui da oggi ufficialmente un ex presidente arrestato e imputato, il primo a subire questa onta, lei una ex, che non ha mai vinto.
Ma questa è New York, città di sfide estreme e memoria lunga.
Memorie di cattiverie e insulti, rancori e depressioni. Alla fine, in questo faccia a faccia non consumato, c’è il racconto perfetto del sotto testo psicologico, emotivo e politico, dell’insanabile scontro fra i democratici e Donald Trump – il gusto e la passione con cui i primi stanno inseguendo da anni il secondo, e la furia cieca con cui quest’ultimo risponde. Una ricetta perfetta per uno strappo che rischia un danno serio, se non irreversibile, alla più potente democrazia occidentale.
Della prima giornata di Donald Trump arrestato e imputato davanti a un giudice, si può dire tuttavia che per ora i segnali dello scontro a venire sono molto misti. La vicenda non ha preso la piega peggiore. Quella minacciata la settimana scorsa da Miami dall’ex presidente – sfilata a piedi per le strade di Manhattan, manette ai polsi, chiamata alla mobilitazione di masse di arrabbiati sostenitori, scontri nelle vie della città fra i pro e i contro, foto del detenuto al banco degli imputati. Il corteo di macchine scure con Trump è passato invece senza complicazioni nelle strade di New York, scontri zero, e ancora meno di zero folclore fra Corte e detenuto. Siamo ovviamente solo alle prime ore, ma, al netto di sviluppi improvvisi e imprevisti nella notte, si potrebbe parlare di un clima raffreddato. Prodotto da decisioni prese da tutte le parti in causa.
La corte ha preso decisamente la strada di evitare lo spettacolo della giustizia: ha preso un altro po’ di tempo, dopo le rivelazioni sull’arresto; ha evitato il rito della foto segnaletica, delle manette; ha presentato le 34 accuse con attenzione a non trasformarle in un comizio sulla immoralità dell’uomo (che pure di fatto è la vera accusa); ha persino sottolineato che questi procedimenti non impediscono la corsa alla presidenza. Già, la corsa a ricandidarsi per le presidenziali del 2024 – che è poi null’altro che l’oggetto del desiderio dietro tutta questa storia. I democratici, si dice, vorrebbero che Trump corresse, perché con queste accuse addosso sarebbe facile sconfiggerlo. E se la cautela di queste ore fosse segno di una esitazione in campo democratico proprio su questa previsione?
Cautela (forse) anche in campo repubblicano, dove tutti, anche i nemici (leggi: Pence) dell’ex presidente, e i suoi 4 potenziali sfidanti alla corsa presidenziale, si sono immediatamente allineati in difesa. In particolare, sveltissimo è stato il suo più serio sfidante, DeSantis, governatore della Florida. Segno anche questo che il Trump finora considerato un peso di cui liberarsi per la rigenerazione del partito repubblicano, è forse tornato a essere guardato come un vincitore?
Infine, i supporter del tycoon newyorkese, i “proud boys”, e tutti gli altri gruppi, non paiono stavolta aver risposto in massa all’appello. Molti i tifosi di Trump presentatisi, ma, si faceva notare, i “proud boys” e le altre sigle sono stati sfoltiti dalle condanne per l’attacco del 6 gennaio a Washington, e al momento stanno prendendo le misure del tutto.
Al momento, appunto, questa è la situazione, passibile di diventare diversa ogni ora e ogni giorno futuro.
Un solo elemento è fermo – e questo potrebbe e dovrebbe essere il punto di non ritorno di una riflessione: la politicizzazione della Giustizia come arma di parte nella lotta politica ha fatto molti danni, e tutti irreversibili, in molte delle più forti democrazie. Lasciando dietro di sé disorientamento e sfiducia nelle istituzioni, pagati poi con la credibilità dell’intero sistema.