Domenico Quirico
Derna è un luogo dove la vita è da sempre una pianta dura. Forte, invincibile che si abbarbica subito anche alle più tristi rovine, anche alle pareti della più sottile speranza. Gheddafi e il suo quarantennio di feudalesimo tribale, di funebri criminali pagliacciate, la guerra civile nel 2011, il Califfato della Sirte, i bombardamenti degli aerei di al Sisi per estirpare dalla città gli uomini di Daesh che colpivano in Egitto, e poi altre battaglie per i pozzi e i petrodollari, unico scopo del caotico massacro che dura da dodici anni. Sempre ha resistito, Derna, ribelle, rivoluzionaria, anche jihadista, che non ha mai dimenticato le sue grandi giornate di una volta. Ma a quello che è accaduto tra sabato e lunedì, l’uragano che ha sommerso con ciclopica cura l’Est della Libia, gli abitanti della città non possono ancora credere. Ha insegnato loro che il filo sottile che divide la disperazione dalla speranza non è davvero dato agli uomini conoscerlo.
Qui si impara da millenni a sopravvivere con il deserto che ti abbraccia e talora ti soffoca, con le sue siccità infinite; non con la furia dell’acqua che, invece, è sempre fragile avara benedizione. L’oro è liquido, ma nero e spesso come il petrolio. L’invenzione del grande fiume che scaturiva dalle sabbie e dissetava il deserto era un prodigio annunciato dalla Guida che si credeva immortale. A Derna, per interminabili ore, è come se sterminatamente a perdita d’occhio le acque avessero coperto il mondo come al tempo di Noè. Non è più il “uadi”, il torrente effimero che avanza di qua, serpeggia di là e guadagna il mare sparendo.
Era una massa pesante, fango liquido che si spargeva per le case e trascinava sulla sua liscia superficie tutte le rovine che aveva fatto. E sembrava uscito da un mondo impossibile, quello della sabbia che uccide per mancanza d’acqua che diventa la sabbia che uccide perché ne ha troppa. Ora è la desolazione che il grande lenzuolo scuro porta nelle sue pieghe con i naufraghi percossi e incatenati e seimila, forse di più, morti. L’onda ha sparso le acque di frammenti della città, l’acquitrino adesso galleggia, asciugandosi sotto una luce smorta, di travi, di masserizie, di auto travolte dalla piena. In alcune anse le acque ancora ribollono. Il fiume come un immenso drago si è dissanguato attraverso le falle del suo alveo improvvisato che prima erano piazze e strade e adesso si è perso nell’immensità del mare.
Chissà se è vivo e sta bene Shukri, l’oppositore di Gheddafi che ho incontrato nel 2011. Era stato dieci anni nella lugubre prigione di Abu Salim a Tripoli che aveva fama di restituire solo morti. Dicevano che era un islamista e per provarlo non c’era bisogno né di processo né di condanna.
Diceva: «Bastava portare la barba e in questa città ed eri già un pericoloso terrorista». Perché Derna era il bastione della resistenza in nome di Dio a Gheddafi il tiranno, non si era mai lasciata tentare dalle sue lusinghe impastate di denaro e di chiacchiere: la Jamahiriya, il libro verde, l’era delle masse, il re dell’Africa. Shukri, anche se allora il Colonnello era ancora vivo e resisteva disperatamente in fondo al deserto non aveva dubbi: è finito il pagliaccio, troppe ingiustizie troppa violenza.
L’avevo incontrato alla grande moschea di Al Sahaba dove è la tomba di uno dei compagni di Maometto. Era gonfia di gente notte e giorno, il cuore della città, lo spazio dove incontrarsi scambiare rabbia preghiere complotti. Lì si riuniva all’inizio della rivoluzione anche il consiglio municipale creato dai ribelli per amministrare la città. Nella sala d’ingresso si dipanava una catena umana che sfilava davanti a decine di fotografie di “martiri” appese ai muri. I morti del regime in quaranta anni di Colonnello, i ribelli di Derna, quelli della rivolta del 1996, massacrati a raffiche di mitraglia dai soldati in prigione, più di mille morti; e quelli caduti nel ribollire della lotta e nel subbuglio delle speranze nei giorni della rivoluzione. La prima storia comune punteggiata di dolore, di figli perduti, di una possibile libertà.
Era il tempo degli abbracci e della speranza allora a Derna. Anche Abdul Hasadi, brizzolata barba mosaica, che la polizia di Gheddafi aveva inserito negli elenchi dei Jihadisti più duri, poteva dire che voleva la pace e la democrazia, uno Stato di diritto. E ricordava che prima della dittatura del Colonnello, Derna, che si diceva fanatica e jihadista, aveva eletto sindaco una donna. Ma dimenticava, opportunamente, che decine di giovani della città si erano uniti alle katibe dei fondamentalisti nella guerra siriana. Poi sul lungomare che ti costeggiava denso, innegabilmente torvo, con un azzurro intenso ma senza trasparenza, trovavi un barbuto con il kalashnikov che presidiava un posto di blocco e distribuiva agli automobilisti un volantino firmato da un gruppo salafita con sede a Alessandria d’Egitto: seguite i precetti di Dio e combattete al suo fianco gli apostati. Molti, allora, lo accartocciavano e lo buttavano dal finestrino. Ma quando erano fuori vista. Non immaginavano certo che nel 2014 Derna sarebbe diventata la capitale del primo califfato alleato a quello appena sbocciato tra Siria e Iraq. Dove c’era il tribunale islamico, la moschea salafita, la polizia della virtù. L’emiro era uno yemenita, Abu al Azdu, un saudita implacabile era a capo del tribunale islamico.
Avevano conquistato la città insinuandosi con metodo mese dopo mese facendo rientrare gli spietati “siriani”, prendendo il controllo dell’ospedale, pattugliando le strade con le loro bandiere nere. Allo stadio, le tribune piene, inscenarono l’esecuzione di un egiziano. I capi delle milizie rivali e i militanti democratici li eliminavano silenziosamente.
Il califfato di Derna lo abbatté il generale da operetta, Khalifa Haftar, aiutato da Emirati, Egitto e Francia, perché puntava a controllare la mezzaluna del petrolio, la zona dei pozzi. Che interessa a molti, anche a noi italiani. È stata l’unica sua operazione militare che non è finita in un fiasco. In codice si chiamava la’ “Santa invasione”.