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8 Agosto 2022Giovanni Fattori e il suo rifugio, il prezzo delle opere invendute, gli allievi e i consigli mai dimenticati: inizia con il pittore livornese, la serie sulle storie dell’Accademia di belle arti
diGregorio MoppiLa stanza dove morì Giovanni Fattori era zeppa di sue opere invendute. Quante volte il pittore livornese, l’esponente più illustre fra i macchiaioli, aveva dichiarato che se ne sarebbe sbarazzato volentieri se gli avessero offerto, per tutte, almeno diecimila lire. Lo diceva per dire, perché a ciascuna creazione era legato come un padre ai propri figli. Ogniqualvolta ne cedeva una, benché provasse orgoglio nel vederla andare per il mondo, si preoccupava però per la sorte che le sarebbe potuta toccare: l’acquirente l’avrebbe amata davvero, valorizzata, accudita?
Evidentemente lui non era un buon agente di se stesso, e si deprezzava, dato che all’indomani della sua dipartita con diecimila lire non si sarebbero potuto rilevare che una tavoletta piccola dal suo vasto lascito. Era il 30 agosto 1908 quando Fattori lasciò questa terra alla soglia degli ottantatré anni, celebre ma senza il becco d’un quattrino. La brandina in cui spirò – assistito da un bidello e da Giovanni Malesci, l’allievo più devoto – si trovava in quello che da tre decenni era il suo rifugio: un’aula-atelier-abitazione al pianterreno dell’Accademia di Belle Arti, ampia vetrata sul giardino da cui una grande magnolia gettava dentro l’ombra. Allora non era inconsueto che i professori, oltre che tenervi lezione, dimorassero e lavorassero negli spazi dell’Accademia. Per entrare nel suo appartamentino è probabile che l’artista usasse l’ingresso di servizio in via Cesare Battisti, la strada che collega piazza Santissima Annunziata con piazza San Marco.
Lì, una lapide in bronzo posta dal Comune nel 1925 ricorda l’illustre inquilino: “In questo studio dell’Accademia, francescanamente lieto di un pane, Giovanni Fattori, purissimo artefice etrusco, disegnò, incise, dipinse, insegnando ai discepoli, ai posteri che arte è libertà da ogni formula nova ed antica”. In effetti il suo insegnamento rifiutava i canoni dell’epoca, ponendosi come rivoluzionario, poiché indirizzava gli studenti all’assoluta autonomia creativa. «Nel suo corso di disegno nessuna regola veniva imposta»,racconta Valeria Bruni, docente di Storia dell’arte all’Accademia, che con i colleghi Mauro Pratesi, Susanna Ragionieri, Giandomenico Semeraro ha curato di recente, per Mandragora, il volume doppio “Percorsi artistici nell’Accademia di Belle Arti di Firenze: 1900-1948”. «Da quell’aula si entrava e usciva a piacere, non era richiesto silenzio assoluto, si poteva smettere di frequentare, poi magari ripresentarsi anche dopo mesi. E Fattori proclamava che gli antichi andassero, sì, conosciuti, ma non imitati. “Fate quello che vedete con naturalezza”, raccomandava. “Fate quello che sentite e amate. Non quello che fanno gli altri. Non quello che e? di moda”. Perciò ilcorpo docente e il resto degli studenti – secondo quanto testimonia Lorenzo Viani, allievo del corso – consideravano quella classe un covo di sciagurati». Come si presentasse l’appartamento di Fattori risulta dalle memorie di un’altra sua pupilla, Leonetta Pieraccini (futura moglie del critico Emilio Cecchi e madre della sceneggiatrice Suso). Uno spazio molto diverso dagli studi concessi ai professori più stimati dalla direzione dell’Accademia: collocati all’ultimo piano, spaziosi, inondati di luce, con la stufa per l’inverno.
Quello di Fattori assomigliava, invece, a un magazzino. Aveva pareti spennellate di ocra giallastra. Una piccola porta lo univa a un bugigattolo rischiarato da una finestra stretta. C’era un manichino con una divisa da ufficiale d’artiglieria, un’infinità di ritratti, di paesaggi con bovi, di scene di vita militare, tanti cavalletti attorno cui si muoveva, in clima festoso, una marea di allievi affaccendati, mentre il maestro sedeva al suo, di cavalletto, e non smetteva un attimo di lavorare, neppure quando arrivavano visitatori o compratori. «Con gli studenti era gentile, cosa inconsueta nelle scuole del tempo.
A loro, che faceva disegnare di continuo, inculcò l’ossessione per il lavoro», prosegue Bruni. «La morte del pittore macchiaiolo lascio? un vuoto incolmabile, se non nel cuore dei colleghi, in quello degli allievi.
Già nel secolo precedente il suo insegnamento era diventato il porto di arrivo sognato per tanti giovani aspiranti artisti, che venivano all’Accademia di Firenze solo per lui. Uomini e donne consci dell’importanza di un tal maestro.
Molti di loro si affermeranno per la loro identitaria cifra stilistica che ne farà, a loro volta, maestri ed artisti di prestigio, spesso anche internazionale. Fra questi: Augusto Bastianini, Umberto Brunelleschi, Llewelyn Lloyd, Armando Spadini, Giovanni Costetti, Oscar Ghiglia, Moses Levy, Baccio Maria Bacci e Ardengo Soffici, che già durante gli anni di studio faceva avanti e indietro tra l’Italia e Parigi».