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25 Dicembre 2022
Alessandro Piperno
A una quarantina d’anni dalla sua morte, ora che il suo magistero intellettuale ha smesso di esercitare un potere assoluto, tanto ammaliante quanto intimidatorio, ora che gli odi che attrasse su di sé e la devozione che fu in grado di suscitare sono venuti meno, possiamo dirlo con franchezza, senza ritegni reverenziali, persino con sollievo: Jean-Paul Sartre ha perso su tutti i fronti. Non solo la battaglia con i nemici, ma anche e soprattutto la competizione con gli amici. Sempre più, nel caliginoso firmamento della letteratura contemporanea, la stella sartriana appare oscurata dagli sfavillanti astri di Simone de Beauvoir e di Albert Camus.
Ancora negli anni della mia adolescenza, per la formazione di un ragazzo animato da ambizioni artistiche, romanzi come La nausea, racconti come Il muro e Infanzia di un capo erano imprescindibili. Oggi non lo sono più. Esiliate sugli scaffali più impervi delle librerie, le opere narrative di Sartre resistono nelle bibliografie e nelle note a piè di pagina degli specialisti, più come reperto storico che come fonte di piacere estetico o ispirazione letteraria. Ciò dipende solo in parte dalla natura di quei testi (Infanzia di un capo è un racconto meraviglioso). L’ostacolo maggiore consiste nell’armamentario ideologico che li soverchia: un equipaggiamento che risulta quanto mai ingerente, obsoleto, se non addirittura indigesto. Dubito che in circolazione ci sia ancora qualcuno disposto a prendere sul serio la distinzione che Sartre opera tra poeti e narratori. Rilette oggi, le argomentazioni con cui libera il poeta dall’obbligo di impegnarsi che grava sul narratore appaiono di una capziosità esasperante e ridicola. Escludo che scrittori con un po’ di sale in zucca sarebbero disposti a sottoscrivere frasi come la seguente: «Bisogna raccomandare agli autori contemporanei di lanciare dei messaggi, cioè di limitare volontariamente i propri scritti d’espressione involontaria dell’animo». Per non dire di questa: «Uno dei principali motivi della creazione artistica è certamente il bisogno di sentirsi essenziali nei confronti del mondo».
Certe volte, leggendolo, hai la strana impressione che Sartre scriva deliberatamente contro di sé, o, per meglio dire, contro la propria prodigiosa intelligenza. Dio non voglia che l’ortodossia marxista gli prenda la mano! Allora sì che la prosa diventa rigida, oscura, burocratica, involontariamente comica come un ciclostile brigatista. Converrete con me che liquidare i giganti del Grand Siècle (Racine, Corneille, La Bruyère) come «parassiti di una classe parassitaria» è il genere di semplificazione sociologica che non perdoneremmo a uno studente facinoroso, figurarsi a Sartre.
Il settarismo violento che, da un certo momento della sua carriera in poi, s’impossessa di lui lo spinge ad abbracciare cause che, a distanza di decenni, ci sembrano nel migliore dei casi marginali, nel peggiore indifendibili. Per non parlare delle marce, delle firme apposte a petizioni insulse, delle prese di posizione tanto coriacee quanto velleitarie. Valutate con il senno di poi le aspre contese che lo divisero dal sodale di una vita, Raymond Aron, servono solo a dare ragione a quest’ultimo e a rendere manifesta la cecità sartriana, il suo cinismo algido, feroce e spregiudicato. Ammettiamolo: se con i nemici sa essere spietato, è agli amici che Sartre riserva il trattamento peggiore. Anche su questo piano, sul terreno vischioso delle idee e della battaglia per affermarle, la sconfitta di Sartre sa tanto di disfatta.
Una vita fatta di parole
Ciò detto, a dispetto di tanti errori, delle troppe sciocchezze mascherate da cose serie, dei vicoli ciechi in cui si è andato lietamente a cacciare, sarebbe ingiusto negare che Sartre continui a essere uno dei massimi scrittori francesi del secolo scorso. Lo è, verrebbe da dire, suo malgrado. In un certo senso mi pare più grande di Camus: più strutturato, spigoloso, consapevole. Per quanto assottigliato sia oramai il loro spazio di influenza, i libri di Sartre continuano a emanare un’iridescenza gelida. Le sue frasi — dure come la pietra, nette come certe belle mattine d’inverno — hanno una spigliatezza inaudita. Le idee, persino le più fallaci e tendenziose, conservano una forza di penetrazione sorprendente. Sono pochi gli scrittori del Novecento che abbiano avuto altrettante capacità argomentative. Che non sia questo il problema? Il richiamo irresistibile delle parole. Non riesce a trattenerle, le snocciola con voluttà, se ne lascia sommergere. Talvolta hai la sensazione che ne scriva troppe, oppure che le usi a sproposito.
Non sorprendiamoci allora se intitola la sua autobiografia: Le parole. Per non farsele scappare, si fa di anfetamine. Più sarà sveglio, più sarà lucido, più potrà liberarsene imprigionandole sulla carta. Le parole sono la sua droga, più dell’anfetamina, più del tabacco e dell’alcol di cui è schiavo. Ha un bel fare professione di modestia, ha un bel confessarci il suo tormento di scrivere, l’esasperante difficoltà nel farlo, la sua natura di «sgobbone». Sarà, ma proprio non sembra. Di qualsiasi cosa scriva, su qualunque cosa speculi, trova sempre il modo di coinvolgerci con l’immagine giusta, insieme vivida e pertinente.
Il vizio della letteratura
Eppure, per come ne parla, viene quasi da pensare che Sartre consideri questa sua attitudine ad assemblare parole — questa droga che si è fatta professione — come un vizio, o ancor peggio, un malcostume da cui è necessario emendarsi. Ciò lo porta a interrogarsi continuamente sull’essenza stessa della letteratura. Traviato dagli ideali politici, non riesce a capacitarsi che la scrittura — l’arte in cui lui non ha rivali, l’acquario in cui sguazza felice — sia (per utilizzare un lessico che gli è caro) un esercizio gratuito e senza scopo. Certe volte pare quasi che si vergogni di essere uno scrittore non meno di quanto si vergogni di essere un borghese. Per ripulirsi la coscienza, fa i salti mortali. Temendo che qualcuno possa assimilarlo a loro, si scaglia contro i grandi scrittori borghesi che lo hanno preceduto. Lui non seguirà la via tracciata da Baudelaire, lui non sarà l’ennesimo epigono di Flaubert, lui non sarà il borghese disadattato e risentito che pur di non darla vinta alla vita si acquatta nel prezioso bozzolo della letteratura. Lui pretende di più da sé stesso, non gli basta essere l’ultimo esponente di una tradizione da cui vuole ad ogni costo smarcarsi.
Almeno in questo in sintonia con Tolstoj, sebbene da una prospettiva per certi versi antitetica, Sartre considera la letteratura un’occupazione frivola, fuorviante e depravata. Non c’è niente che più deplori della sprezzante retraite dell’artista ottocentesco. Ciò che quei perdenti di successo consideravano dignità e eroismo per lui è solo acquiescenza e viltà. Il severo oggettivismo flaubertiano non è che la faccia presentabile del cupo soggettivismo baudelairiano. Di fatto non sono altro che pretesti per non agire, per non sporcarsi le mani, per non impegnarsi, per non cambiare le cose, per tenersi a distanza debita da ciò che conta, per non prestare il giusto contributo alla causa delle classi disagiate e sfruttate. Per lui l’arte può avere un senso a patto che si associ all’azione. Essa deve, sì, distruggere, ma solo se poi è in grado di edificare. Essa deve, sì, odiare, ma solo se poi è in grado di fornire un’alternativa accettabile.
Lui non farà la fine di Mallarmé! Lui non sarà mai il genio piccolo-borghese «segnato dal gusto dell’ordine, dell’austerità, dell’economia, della vita di casa e dal disinteresse e dalla dignità». Lui non si farà alfiere di un programma di vita così meschino, negletto, supinamente reazionario. Lui è Jean-Paul Sartre, e non vuole essere altro. L’insegnamento più prezioso che ha impartito ai posteri è proprio questo: ciascuno di noi è ciò che sceglie di essere. Qui nascono i problemi.
Contro l’artista-borghese
Se il contegno tenuto dall’artista solitario che si gloria della propria scalognata solitudine lo esaspera, a farlo davvero infuriare è l’atteggiamento dell’artista di successo. Forse perché di fatto è la categoria umana cui teme di essere assimilato. In un certo senso lui sta alla Parigi del dopoguerra come l’aborrito Tiziano stava alla Venezia dei Dogi. Nel mettere a confronto due figure di artista per certi versi antitetiche, come Tiziano e Tintoretto, Sartre non si fa alcuno scrupolo a parteggiare spudoratamente per il secondo a scapito del primo. «Andate a vedere le due tombe: capirete quanto può costare ancora oggi l’avere preparato la propria patria al peggio. Il cadavere radioattivo del Vecchio è stato seppellito sotto una montagna di strutto, a Santa Maria dei Frari, vero cimitero dei Dogi; il corpo di Tintoretto riposa sotto una lastra, nell’indistinta tenebra di una chiesa di quartiere. Per quello che mi riguarda, va bene così; al Tiziano lo strutto, lo zucchero e il torrone: è il suo castigo poetico e sarebbe stato ancora meglio se lo avessero seppellito a Roma, sotto il monumento a Vittorio Emanuele, il più orrendo d’Italia dopo la stazione centrale di Milano; a Jacopo gli onori della nuda pietra: il suo nome è sufficiente».
Tale scialo di retorica foscoliana serve a Sartre per dare addosso al venerato artista di corte, l’ipocrita cantore del regime. «Il Tiziano passa la maggior parte del suo tempo a tranquillizzare i principi, a certificare loro attraverso i suoi quadri che tutto va per il meglio nel migliore dei modi possibili. (…) Coloro che garantiscono il successo del Tiziano sono gli stessi che disertano il mare, che fuggono il disincanto nelle orge, che preferiscono la rendita fondiaria ai profitti della mercatura». Insomma, eccone un altro, l’ennesimo parassita di una classe parassitaria.
Al di là di qualsiasi altra considerazione legata all’orgoglio e alla vanità, al di là del ritegno politico, è questa la ragione per cui Sartre rifiuta il Nobel. Non vuole essere addomesticato. Non vuole essere onorato. Non vuole affrontare l’eternità in una tomba monumentale. Niente lo tocca meno delle onoranze funebri concesse agli artisti morti, a lui interessa l’hic et nunc della vita che si svolge. Quando è chiamato a definire il ruolo dello scrittore nel mondo, non si tira indietro e lo mette per iscritto. «In breve la letteratura in atto può raggiungere la sua piena essenza in una società senza classi. Solo in essa lo scrittore potrebbe accorgersi che non c’è nessuna differenza tra il suo soggetto e il suo pubblico. Perché il soggetto della letteratura è sempre stato l’uomo nel mondo. Ma finché il pubblico virtuale rimane come un mare oscuro attorno alla piccola isola luminosa del pubblico reale, lo scrittore rischia di confondere gli interessi e le preoccupazioni dell’uomo con quelli del piccolo gruppo privilegiato. Se invece il pubblico si identificasse con l’universale concreto, lo scrittore potrebbe scrivere veramente della totalità degli uomini: non dell’uomo astratto di tutte le epoche e per un lettore senza tempo, ma dell’uomo intero della sua epoca e dei suoi contemporanei».
Ciò lo spinge a liquidare con un gesto di tracotanza suprema, quasi nella sua totalità, la storia della letteratura francese, e proprio perché essa è zeppa di sepolcri imbiancati. Altro che Racine, altro che Flaubert, altro che Proust! Il mondo che sogna è privo di borghesi, e quindi di artisti votati alla gratuità e alla disperazione nichilista. Un mondo dove tutti gli uomini sono uguali, in cui l’artista e il fruitore d’arte appartengono alla stessa indistinta categoria di persone. Per questo si entusiasma tanto per Jean Genet. Per questo trasforma questa figura di artista-criminale in un santo e in un martire. Ad avvincerlo è la dannazione sociale che Genet fatalmente incarna. Lui è artista a pieno titolo proprio perché non ha accesso ai privilegi materiali e alle prebende morali appannaggio dell’artista-borghese.
Nelle pagine più vibranti del mastodontico Santo Genet, Sartre scrive: «La sua volontà originaria è realistica. Vuole quel che è. Ma l’oggetto medesimo di questa volontà la muta presto in un sogno. Genet, senza cessare di volere il reale, s’imbarca nell’immaginario. Fedele al suo progetto iniziale, rifiuta di abbandonarsi alle finzioni: non sarà lui di quelli che volgono le spalle all’universo, che restano incantati dalle proprie immagini. Poiché vuole il reale ed è obbligato a sognare, è il reale che trasformerà in sogno; potrà dire orgogliosamente di sé, come d’Ernestina la sognatrice, che non abbandona mai la realtà».
In parole povere, Sartre vede in Genet l’antidoto perfetto a Flaubert, l’altra metà del cielo. Se Flaubert si specchia nelle sue immagini, e se ne compiace a scapito e a dispetto della realtà, Genet compie l’itinerario inverso. Fa in modo che le sue immagini contaminino la realtà fino a stravolgerla.
L’ultimo fallimento
Date tali premesse ideologiche, non è così difficile spiegare perché, da un certo momento in poi, Sartre abbia smesso di scrivere narrativa. La sua scelta più o meno deliberata non ha niente a che fare con l’afasia creativa che affligge certi romanzieri bolliti. Infatti non viene mai tematizzata, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma la verità è che le consegne e i divieti che questo paladino della libertà non smette di infliggere agli scrittori della sua generazione sono talmente capestri da torcerglisi contro come boomerang. Se è vero che conta solo l’impegno, allora non importa se scrivi libri scadenti, l’importante è che essi siano irrorati di decoro morale e responsabilità civile. Non è un bel paradosso che proprio lui, l’alfiere della libertà, si ritrovi imprigionato nella gabbia che ha costruito per gli altri? A forza di raccomandarla, questa libertà benedetta, ne è rimasto vittima. Così il grande liberatore si fa tiranno, soprattutto di sé stesso.
A un certo punto invita gli scrittori del Terzo Mondo a non scrivere più: hanno ben altro a cui pensare. Del resto, il suo cruccio è tutto in una consapevolezza: non solo lui non è Genet ma, per quanto impegno possa metterci, non lo sarà mai. Lui è il ragazzo che ha passato buona parte della sua adolescenza nella biblioteca del nonno, e mica perché vi è stato costretto ma perché non desiderava altro che leggere e scrivere. Lui è e resterà sempre il prototipo dell’artista-borghese che esecra. Affinché gli altri non se ne accorgano, si spoglia dei panni dello scrittore fingendo di essere un altro. Un filosofo. Un intellettuale. Un giornalista. Un maître à penser. Per non snaturarsi del tutto, mette le sue capacità creative, di invenzione, al servizio delle biografie che scrive. Dà ai suoi personaggi immaginari nomi illustri: Tintoretto, Mallarmé, Genet…
A guardar bene, però, questi eroi hanno poco a che spartire con gli uomini in carne e ossa da cui Sartre ha tratto spunto e ispirazione, ma non ha importanza. A contare è che le loro vite, trasfigurate dal genio di questo satanico affabulatore, si rivelino abbastanza paradigmatiche da risultare esemplari.
Spesso gli capita di chiedersi cosa ne sarebbe stato di scrittori come Flaubert e Maupassant se, ripudiando i propri privilegi di casta e l’immacolata vocazione artistica, si fossero impegnati. Be’, meglio farebbe a interrogarsi su cosa ne sarebbe di lui se solo rinunciasse all’impegno in nome della letteratura. Ma non può farlo. Se lo facesse si renderebbe conto che la sua ispirazione è soffocata dalla museruola. Dotato di buongusto letterario com’è, preferisce astenersi. Forse, come pensano alcuni, la narrativa non è il suo stagno, non lo è mai stato. Resta il fatto che le volte in cui ci si è dedicato ha raggiunto risultati più che ragguardevoli.
E intanto, per rendere ancora più beffardo questo paradosso, legge e rilegge Flaubert, ossia legge e rilegge colui che pur di essere scrittore ha scelto di non essere altro. Sartre ne è letteralmente ossessionato. Non c’è volta in cui dimentichi di citarlo, anche solo per insolentirlo. Perché se Flaubert gli dispiace tanto, non può fare a meno di scriverne? Perché se Flaubert è ciò che più odia, si dedica con tale accanimento alla sua biografia, mettendo in cascina migliaia di pagine? Per dirla con le parole che lui userebbe in una delle sue biografie esistenzialiste, Sartre ha scelto di essere Sartre. Ma ha fallito anche in questo. A minacciarlo c’è lo spettro di Flaubert, e quindi l’ombra di una vocazione che, se presa seriamente, può e deve bastare a sé stessa.