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23 Ottobre 2023La strategia di Biden azzerare Hamas senza guerra regionale
23 Ottobre 2023
I dubbi di Israele sull’invasione
Davide Frattini
GERUSALEMME E dopo? Se lo chiedono intellettuali come Yuval Noah Harari. Se lo chiedono gli israeliani che hanno mandato i figli al fronte, se lo chiederanno quei ragazzi finito l’incendio della battaglia, se lo chiedono le famiglie degli ostaggi, con la speranza che quel dopo comprenda il ritorno a casa degli amati.
«Il 14 agosto del 1941 — scrive Harari — in uno dei momenti più bui della Seconda guerra mondiale il presidente Franklin D. Roosevelt e il primo ministro Winston Churchill pubblicarono la Carta Atlantica per delineare la visione del mondo dopo la sconfitta del nazismo». Quegli ideali per la fondazione «di un nuovo e migliore ordine globale forse non sono stati del tutto realizzati, ma hanno spiegato a milioni di soldati alleati per che cosa stavano rischiando». Come Roosevelt e Churchill non hanno semplicemente dichiarato «distruggiamo il nazismo» — indica lo storico israeliano — anche «noi abbiamo bisogno di una Carta per le nostre vite dopo la vittoria su Hamas».
A oltre due settimane dalla mattanza del 7 ottobre, Israele comincia a riflettere su quale sarà l’ordine locale, qua e qua attorno, senza voler scalfire l’unità inevitabile durante i conflitti. L’80 per cento degli intervistati — secondo un sondaggio pubblicato venerdì — si aspetta, non è ancora successo, che Benjamin Netanyahu si assuma le responsabilità del disastro. È al potere dal 2009 con una sola interruzione di 563 giorni tra il 2019 e il 2021, è lui ad aver tenuto più a lungo le chiavi della casa devastata dai terroristi fondamentalisti. Dieci mesi di proteste contro il piano giustizia anti-democratico portato avanti dal governo hanno creato divisioni senza precedenti, il movimento di contestazione si è trasformato in macchina di supporto per i soldati a sud e le famiglie evacuate da sud. Gesti che non rimuovono la mancanza di fiducia in Bibi, com’è soprannominato. Fondamentale — in assenza di discorsi empatici da parte del primo ministro — è stato il ruolo di Joe Biden, riconoscono i commentatori: «Il suo approccio quasi terapeutico al nostro umore nazionale» scrive Carolina Landsmann sul quotidiano Haaretz. Abbraccio incondizionato nei discorsi pubblici, suggerimenti — quasi ammonimenti — durante il dialogo privato con il governo. Sarebbe stato Biden a rallentare la fretta di invadere a Gaza, sarebbe stato Biden a evitare (per ora) un attacco massiccio contro l’Hezbollah libanese.
Prendere tempo adesso anche per avere tempo di pensare al dopo. Gallant ha dichiarato che alla fine del conflitto Israele non avrà alcun legame con la Striscia, il sistema di valichi non esisterà più. Altri politici — come Yair Lapid, il capo dell’opposizione — sono convinti che l’obiettivo sia restituire il controllo dei 363 chilometri quadrati con gli oltre 2 milioni di abitanti all’Autorità palestinese. Ipotesi che l’ufficio del primo ministro stronca da subito, perché riaprirebbe una fessura alla possibilità di negoziati più ampi.
Gli americani starebbero pianificando — racconta la testata Bloomberg — un governo ad interim palestinese sostenuto dalle Nazioni Unite e con il coinvolgimento degli Stati arabi che riempia il vuoto lasciato dall’eliminazione di Hamas. Con tutti i dubbi che accompagnano questa operazione: il presidente Abu Mazen controlla a malapena la Cisgiordania, notano analisti meno fiduciosi nel ruolo del raìs.
La paura — di Harari e degli israeliani scesi in strada a protestare fino alla mattanza del 7 ottobre — è che la coalizione di estrema destra «sfrutti la vittoria per annettere territori e ridisegnare i confini con la forza, censurare la nostra libertà di parola, realizzare fantasie messianiche. Non rispondeteci che queste sono questioni divisive, di aspettar la fine della guerra. Nel Paese c’è consenso sulla necessità di disarmare Hamas. E il futuro di Israele? Diteci quale sarà, così sapremo per che cosa stiamo rischiando».