LE EUROPEE DIVENTANO LABORATORIO DI AMBIGUITÀ
4 Luglio 2023Destre contro
4 Luglio 2023Antonio Tajani, di solito un maestro di diplomazia, è drastico e tassativo. Matteo Salvini, che la diplomazia nemmeno sa dove stia di casa, gli risponde a tono. La premier, consapevole di camminare sul terreno più minato che ci sia, dice il meno possibile e i suoi ufficiali sembrano partecipare a un gioco del silenzio: «Perché accapigliarsi ora su qualcosa che non sappiamo nemmeno come andrà?». La proposta del leader leghista di stringere in Europa un’alleanza affine a quella che governa l’Italia, mettendo insieme il Ppe, i Conservatori di Meloni e il suo eurogruppo Identità e Democrazia, non è una frecciata. È una bomba a orologeria.
Il pollice di Tajani non potrebbe essere più verso: «Per noi è impossibile qualsiasi accordo con AfD e con il partito della signora Le Pen. Saremmo lieti di avere la Lega parte di una maggioranza, ma senza Le Pen e AfD». È lo stesso leader di Fi a spiegare le ragioni dell’inusuale durezza, quando ricorda di essere «anche vicepresidente del Ppe». Con una posizione meno rigida sarebbe stato letteralmente sbranato in Europa, in particolare dai colleghi della Cdu tedesca il cui incubo oggi si chiama proprio AfD.
IL VELLUTO adoperato da Tajani con la Lega non placa Salvini. Avrebbe dovuto incontrare a Roma proprio la leader francese ostracizzata. Poi, ufficialmente per i disordini in Francia, il colloquio si è svolto invece in rete. A Le Pen e a Jordan Bardella il capo della Lega dice cose opposte a quelle del collega azzurro e non le tiene segrete: «Mai la Lega andrà con la sinistra e con i socialisti. Non accetto veti sui nostri alleati. L’unico centrodestra presente in Francia siete voi». Prima di lui avevano risposto a Tajani il presidente legista di Identità e democrazia Zanni e il capodelegazione della Lega a Strasburgo Campomenosi: «Non è il momento dei diktat. Tajani preferisce Macron e le sinistre alla Le Pen?».
Mentre da un lato e dall’altro fischiano le pallottole, la più diretta interessata, Meloni Giorgia, fa finta di niente: è troppo presto per affrontare lo spinoso tema e comunque «a Bruxelles sui singoli provvedimenti si creano alleanze allargate alternative alla sinistra». Non si capisce bene se si tratti di una mezza apertura o di una chiusura non troppo ruvida. Per ora non lo si deve capire. Certo la premier non può aprire le porte a forze politiche apertamente ostili ad appoggiare l’Ucraina: brucerebbe in una sola fiammata tutta la credibilità conquistata in Europa appoggiando più di chiunque altro l’impegno a favore di Kiev. Altrettanto certamente non può dire prima delle elezioni di essere pronta, se necessario, ad allearsi in Europa anche con i socialisti: per Salvini sarebbe una festa di nozze da far impallidire le meraviglie del Papeete. Una felice ambiguità basata sul vago auspicio di poter un giorno, ma chissà quando, trasferire in Europa il modello della maggioranza italiana è il riparo migliore.
QUEL RIPARO Salvini ha tutto l’interesse nel distruggerlo. Quel che succede in Europa si ripercuote puntualmente, e spesso in modo decisivo, nei singoli Paesi e nessuno lo sa meglio di lui, abbattuto nel 2019 proprio dalla nascita della maggioranza Ursula. Ora deve evitare a ogni costo che si concretizzi l’opzione sulla quale moltissimi a Bruxelles puntano: l’allargamento di Ursula ai Conservatori con gli estremisti di Identità e Democrazia spinti in un ghetto. Lo stesso ghetto nel quale di lì a poco la Lega si troverebbe anche in Italia.
Non è la carta su cui punta Meloni. L’obiettivo della leader italiana è una maggioranza Popolari-Conservatori aperta sui singoli punti all’appoggio di Identità. Quel traguardo però rischia di rivelarsi una chimera: raggiungere i voti necessari è improbo, mezzo Ppe è contrario, sarebbero probabilmente necessari i Liberali, sempre che bastino, e per ora negano ogni disponibilità. A quel punto si configurerebbe l’opzione Ursula allargata, che il costituzionalista del Pd Ceccanti dà per già certa. A palazzo Chigi non si espongono, segnalano solo che la premier ha già dimostrato di saper rinunciare a elementi identitari forti quando necessario. La promessa di aver molta voce in capitolo sulla scelta del presidente e sulla linea politica, oltre a un commissariato di peso, sarebbero certamente allettanti.
A quel punto la premier si troverebbe di fronte alla scelta tra opzioni entrambe potenzialmente letali per la sua maggioranza: accettare l’alleanza con il Pse rischiando di trovarsi senza l’appoggio della Lega o farsi schiacciare sulle posizioni di Identità, mettendo così in enorme pericolo la permanenza in maggioranza di Fi. Sempre che, alla fine e a elezioni celebrate, lo stesso Ppe non finisca per accettare i voti di Identità, magari senza il vincolo di un accordo formale. In fondo anche nella tetragona Fi ieri c’era chi ricordava: «Mai dire mai».