Da Venezia a Palermo i parroci “di frontiera” rimasti soli a lottare contro il degrado
Sono rimasti nei posti dove non c’erano né buone novelle, né scholae cantorum. Solo parrocchie piantate in mezzo ai bisogni, e ai senzavoce. E sono usciti sempre, di giorno e di notte: ribelli dell’aldiquà. A comporre comunità, a portare diritti e parole per dirli, illuminazione o salute, scuola o lavoro. Da preti — o suore, o frati — si sono fatti Stato. Il punto è che in quei “deserti”, anche dieci, venti o trent’anni dopo, oggi, sono i soli riferimenti. (Eppure mai soli, per i tanti che si trascinano con sé, che si danno da fare: a volte a dispetto di indifferenza, crimine, intimidazioni).
Don Coluccia che ha rischiato la vita a Roma, come don Patriciello nel ghetto di Caivano o come il suo “gemello” (più silenzioso, ma non meno in trincea) di inferno napoletano: che è padre Ciro Nazzaro, paladino dei cittadini di Rione Salicelle, comune di Afragola, altro degradato alveare per 10 mila anime, cui la camorra attinge per manovali, spacciatori, killer. «Come comunità abbiamo una cooperativa che funziona, un centro polifunzionale che ci siamo ristrutturati. Ma in 33 anni che sto qui, dall’amministrazione pubblica non sono riuscito a vedere una panchina e una pensilina alla fermata del bus — allarga le braccia don Ciro — In compenso alle Salicelle abbiamo ora carabinieri, polizia, vigili del fuoco, gli voglio bene, eppure alle 3 di notte i clan fanno esplodere i fuochi di artificio, per loro segnali, e nessuno della stragrande maggioranza degli onesti può protestare: sennò ti entrano in casa, te la fanno pagare. Servono progetti di vita e sviluppo, servono scuole, insegnanti, assistenti sociali motivati. Ma lo sa che al Rione c’è il 60 per cento di dispersione? Ma non si può dire. Se lo dicono negli uffici, sottovoce».
Accogliere. E dare senza aspettare. Come il 61enne don Nandino Capovilla, che a Cita, periferia di Marghera, ha creato la Casa di Amadou, l’orto biologico, per i migranti, i senza fissa dimora. «Stare con loro non è solo mensa, dormitorio, ma è distribuire insieme i pasti anche agli altri. Lei non sa quante centinaia di famiglie arrivano: la povertà aumenta, è preoccupante, anche se non grida — sottolinea don Nandino — Poi ciascuno di noi “adotta” degli altri, è un accompagnamento vero, fare della strada insieme. E lo Stato questo deve fare: ascoltare. Conoscere le esperienze, e poi investire su operatori sociali. Non solo per gli abbandonati, ma per i giovani che hanno avuto poco. Eppure, lei sa quanti ragazzi vorrebbero aiutare altri ragazzi? Esiste quella cosa bellissima che è il servizio civile: lei vede che Stato o politica lo pubblicizzano? Zero, nulla». A capo chino sugli altri, fare. Don Giacomo Panizza, bresciano doc da 50 anni in Calabria, con la sua “Comunità Progetto Sud” ha fatto germogliare servizi, cooperative di giovani, comunità terapeutiche e 18 case di accoglienza per vittime di tratta nella periferia di Lamezia Terme. Nonostante le minacce della ‘ndrangheta. «Non parlate solo di un prete, ma di tanti che con noi si adoperano, generano la promozione delle persone», premette don Giacomo, conRepubblica , 75 anni di pura umiltà e leggerezza (anche dopo l’onorificenza ricevuta da Mattarella, o il libro scritto con Fofi, Qui ho conosciuto purgatorio, inferno e paradiso , Feltrinelli, 2011). Intorno a lui, si impegnano in mille. «Quello che serve — spiega don Panizza — non è solo l’aiuto. “Ecco, ti ho dato i soldi”. Non ci siamo. Se qui qualcuno ha bisogno di una carrozzina per disabili, noi non facciamo la raccolta fondi, ma cerchiamo di preparare insieme la documentazione, e ottenere ciò che spetta. Uscirne insieme, la chiave. Noi vogliamo essere società politica, nel basso. Mentre la politica spesso è solo: non avere sanità, non avere lavoro, non avere parità di diritti, non fare politica .
Eppure dai calabresi ottiene consenso ». Si capisce quanto possa far paura un prete così. Anche quando dice, a proposito di disuguaglianze: «Per non parlare dell’Autonomia differenziata di cui sento: per me autonomia è quando partiamo da eguali servizi, non se un leone deve negoziare con gli agnelli».
Stessa tigna di suor Rosetta Colombo, che dopo una vita trascorsa a mettere su centri educativi, oggi da Arghillà, ancora Calabria, dice: «Sapesse come mi arrabbio quando sento dire: ti do un bel centro servizi. Ma ad Arghillà manca ancora l’acqua, capisci?». Arghillà, agglomerato dove «all’enorme insediamento di etnie rom e sinti si sono aggiunti migranti, marocchini, e i calabresi senza più nulla. Ciò di cui si sente la mancanza è che uno Stato li metta al centro di progetti, ma come soggetti consapevoli. Ecco, l’ho visto fare, al Rione Sanità a Napoli, e lo ha fatto padre Antonio Loffredo, con la sua comunità. Eravamo in un processo. Quei ragazzi oggi sono laureati, guidano le Catacombe o musei, addestrano i piccoli, parlano di arte in varie lingue». Ha creato servizi e cultura, ma combatte su tutti i fronti anche fra’ Mauro Billetta, a Palermo, chiesa di Sant’Agnese, quartiere Danisinni: quando il “ghetto” sta non fuori ma nel cuore della bellezza, un passo da cattedrale e Palazzo dei Normanni. «Su 2 mila persone abbiamo almeno 400 bambini: e pensi, non c’era un luogo dove potessero incontrarsi, leggere, non una biblioteca comunale, le loro case sono piccole — ti illustra lui con pazienza — Lo abbiamo creato. Così come abbiamo messo su il Borgo sociale, il Villaggio per crescere». Non immobili pubblici, ma privati. L’ultima battaglia? Volevano chiudere l’unico asilo nido, decrepito. «Abbiamo offerto il progetto, il Comune alla fine lo ha adottato — ricorda fra’ Mauro — tra poco lo inauguriamo». Se il Vangelo è la loro rivoluzione, vincono ogni giorno.