di Fabiana Magrì e Letizia Tortorello
Ghadir Abu Middain palestinese
Ekaterina Beizer israeliana
La guerra falcia via vite alla cieca, nomi, storie, facce di cui nessuno si ricorderà. È il caso a decidere. Stabilisce quand’è la tua ora, il tuo giorno, il tuo minuto. Se sopravvivi o ti cancella. Se si spezza il filo che unisce il «ci siamo» e il «non ci sono più». Quel giorno, il 7 ottobre scorso, quando Hamas è entrata in Israele, ha fatto strage di civili e ha rapito soldati, Nik Beizer, militare dell’Idf di 19 anni, al primo anno di leva obbligatoria, non avrebbe nemmeno dovuto essere lì, nel turno di guardia. «Gli toccava solo un weekend al mese nella base del Cogat (Coordinatore delle attività governative nei Territori) al valico di Erez», da dove si coordinava, fino a un mese fa, il transito dei veicoli commerciali destinati alla Striscia di Gaza, in accordo con l’Autorità palestinese.
«Un collega gli aveva chiesto un favore, un cambio a buon rendere, e lui aveva accettato», racconta la mamma, Ekaterina, che da quella data che sembra lontanissima vive ore infinite di panico: «Gli abbiamo parlato al telefono fino all’alba di quel sabato dannato, gli avevamo portato il cibo per lo Shabbat. L’ultima volta che ci ha chiamato, sentivamo i terroristi in sottofondo. Poi, in un video sul Telegram di Hamas, abbiamo scoperto l’orrore, che l’avevano rapito. Non spero altro al mondo che me lo restituiscano, e vivo». La collega soldatessa Ori Megidish, invece, è tornata dall’inferno. È la prima prigioniera liberata, quattro giorni fa, con un blitz dell’esercito dentro la Striscia. Lei, ma non i 240 ostaggi ancora nelle mani dei combattenti palestinesi, merce umana di scambio e pressione per la guerra contro Netanyahu e l’esistenza stessa del suo popolo.
“Destino” in arabo si dice “Qá dar”. In ebraico, “Goral”. Quello che ti assegna un posto nel mondo in cui nascere e che Ghadir Abu Middain tira in mezzo per raccontare la sua «vita di rabbia, da quando avevo 11 anni ed ero una bambina venuta al mondo nel posto sbagliato, a Gaza sotto assedio da allora ad oggi, ma oggi è più difficile. Oggi è il peggio che io abbia mai potuto immaginare. Credo che non ci stiamo rendendo conto davvero di quello che sta capitando al popolo palestinese», dice.
Ghadir è una studentessa plurilaureata. In Giurisprudenza, Diritti Umani e Democrazia tra Gaza, Beirut e il Qatar, che quest’anno è attesa alla Normale di Pisa per un Phd, ma non potrà arrivare. È intrappolata nella Striscia di Gaza, come i suoi connazionali. A nulla vale la borsa di studio che l’Italia paga interamente, per sfilarla dal destino delle bombe. A nulla è servito, finora, in un’esistenza di privazioni continue (acqua, luce, internet, possibilità di viaggiare, divieto di visitare Israele e la Cisgiordania) e ostacoli per fare tutto, essere la migliore e vincere premi. «Per chi si è abituato a preparare gli esami a lume di candela e ad una condizione di assedio da 16 anni – spiega dalla Gaza bombardata giorno e notte, da Alburij, al centro della Striscia, vicino al campo di Almagazi -, l’escalation della violenza non ti fa nemmeno più impressione. La rabbia si aggiunge alla rabbia. I gazawi non possono fare quello che per tutti gli altri è normale. Non possono nemmeno sognare. Ora, non possono nemmeno più vivere».
O dormire: «Stiamo vivendo notti che non posso neanche descrivervi, non so come farlo – dice Ghadir -. Senti i colpi e non finiscono mai. Sono pesanti, sembrano sempre vicini e non sai se è arrivata la tua ora. Sapete cosa vuol dire provare a dormire pensando che non ti sveglierai mai più? Cosa vuol dire stendersi tra le bombe? Sognare di morire e capire che non è un sogno? Impastare gli incubi e il terrore? Abbandonarsi al sonno per spegnere il rumore delle esplosioni e della paura?», continua. Provare a riposare, rigidi e nervosi, sapendo che il giorno dopo la tv e i social mostreranno morti. Foto e video con la precauzione: “Immagini sensibili”. Ipocrisia di questo tempo di guerra. «Se riesci a ignorare i droni di sorveglianza, che sono un rumore costante, ti risvegli poco dopo per le esplosioni», spiega la giovane.
Sua madre è talmente annichilita che non è neppure capace di realizzare fino in fondo che due cugini sono morti, uccisi nei raid israeliani. «Mamma a volte sorride, sembra stia bene. Altre volte ricorda e piange tutto il giorno». Suo padre è un impiegato governativo dell’Anp, che da anni riceve solo il 50% dello stipendio. Ma l’impatto del conflitto che devasta le vite ha, se possibile, un carico maggiore per le donne della sua e delle altre famiglie. Ogni età ha il suo calvario: «La Gaza che conoscevamo non c’è più – dice -. È un cumulo di macerie. La maggioranza di noi è musulmana, quindi le femmine portano il velo. Immaginate nelle scuole dove si sono rifugiate tra le 7 e le 10 famiglie per aula. Non c’è privacy, una donna non può mai togliersi l’hijab. Immaginate cosa vuol dire non avere acqua e non potersi lavare. Cosa vuol dire perdere la propria dignità». Molte ragazze, spiega, «non hanno accesso agli assorbenti igienici. Prendono le pillole per ritardare le mestruazioni, solo perché non possono farsi la doccia». Mentre gli uomini, durante il giorno, vanno a sedersi fuori, per lasciare mogli, sorelle e figlie degli altri libere di cambiarsi e stare in intimità, alle donne tocca comunque prendersi cura dei bambini. «La gente è stanca, stremata. La comunità internazionale ci sta deludendo, i Paesi arabi ci stanno deludendo. Noi chiediamo solo uno Stato. Odiamo l’occupazione, non gli ebrei. Conosciamo la differenza tra essere ebrei ed essere sionisti».
Ghadir non sa dire se la forza delle donne unite, di qua e di là, israeliane e palestinesi insieme che piangono morti-nemici, potrebbe ottenere un cessate il fuoco. Julia Chaitin, fondatrice dell’Ong Other Voice, composta da cittadini che vivono a Sderot e nelle comunità israeliane vicino alla Striscia e tengono da anni i rapporti coi palestinesi al di là del filo spinato per provare a far vincere la non-violenza, si spinge oltre: «Ci troviamo incastrati in quest’orrenda situazione e non sappiamo quando finirà. Non abbiamo scelta se non vivere in pace». Pensava che Hamas avrebbe potuto essere un partner negoziale, un giorno. «Dopo il 7 ottobre ho capito che mi sbagliavo – spiega -. Non ha mai avuto alcun interesse per una soluzione politica. Quindi, eliminare Hamas è una necessità. Mi chiedo se ci sia un modo per farlo, senza tutte queste morti innocenti».