Dal “sondaggione interno” delle politiche europee Giorgia Meloni è uscita in piedi, anche se meno trionfante di quanto non racconti. Ha perso voti e neanche pochi, 600mila e rotti, ma ha guadagnato punti percentuali, come partito e come coalizione. Non ha fatto lo strapieno come chiunque si trovasse a palazzo Chigi quando si aprivano le urne in Europa ma non è neppure finita a gambe all’aria come chiunque governi oggi nella stessa Europa. Si dichiara soddisfatta e lo è davvero. Solo che per lei le elezioni non erano solo un sondaggione privo di conseguenze concrete, salvo esiti clamorosi come quello francese. La posta in gioco è a Bruxelles e Strasburgo: su quel tavolo l’elettorato le ha servito carte ambigue che la costringono in una situazione che richiederà maestria.

«IL RESPONSO DEI CITTADINI impone che l’Europa guardi più verso il centrodestra: questo è quel che i cittadini chiedono», afferma fingendosi sicura Meloni. Sulla carta potrebbe anche aver ragione. Nei fatti non è così. Ursula von der Leyen, leader pronta a tutto come pochi altri, capace di volteggiare con aristocratica ineleganza passando dal Green Deal al riarmo, dall’apertura a destra al cordone sanitario contro la destra, guarda ai numeri, tiene conto del veto del Pse e dei Liberali, indisponibili a sostenerla se intavolerà trattative con i Conservatori, trae le conseguenze. Ora vuole «costruire un bastione contro gli estremisti».

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Conte chiama Elly: «Avanti col dialogo». Toninelli prova a guidare il dissensoA tal fine dialogherà prima di tutti con i Socialisti però «lasciando le porte aperte ad altri». Non allude però a quella che sino a ieri sembrava l’amica del cuore «davvero europeista», Meloni Giorgia, ma ai Verdi, i quali peraltro si sono già detti prontissimi a votarla.

ALLA LUCE DEL SOLE von der Leyen i voti ce li avrebbe comunque. La maggioranza che porta il suo nome ha una quarantina di seggi in più rispetto ai 361 necessari. Ma di mezzo ci sono i franchi tiratori, che non mancheranno e potrebbero affossarla senza il soccorso tricolore di Meloni. I verdi però dovrebbero bastare a evitare il tonfo. Certo il voto è segreto e nessuno può proibire di votarla agli eurodeputati FdI, se non all’intero gruppo conservatore dove in molti guardano a von der Leyen col fumo negli occhi. Però non è quello a cui mirava la premier italiana, che ambiva al ruolo di queen maker, e intendeva giocare sull’ambiguità tra voto esplicito a favore della nuova presidenza e pretesa di essere al di fuori della maggioranza.

Si trova invece nella condizione di chi può sempre entrare nel palazzo lussuoso del potere europeo, però dalla porta di servizio e stando ben attenta a non farsi notare. «Può fare il pesce piccolo in uno stagno grande o il pesce grande in uno stagno piccolo», sintetizza impietosa ma lucida Natalie Tocci. Lo stagno piccolo, non piccolissimo, è quello in cui nuotano le due destre, quella dei Conservatori e quella di Id. Finiranno inevitabilmente per riavvicinarsi ma tanto più rapidamente quanto più stretto sarà il cordone sanitario contro di loro. In quello stagno, peraltro, Meloni potrebbe scoprire presto di non essere più il pesce più grosso, con Marine Le Pen che sguazza nelle stesse acque.

La premier italiana, consapevole di avere pochissimo spazio di manovra a Strasburgo, punterà di conseguenza sul Consiglio europeo, dove il voto, data la debolezza di tutti gli altri a partire da Macron e Scholz, le garantisce una posizione di maggior forza: «Il candidato verrà indicato dal Consiglio e la proposta spetta al Ppe, che ha più voti di tutti», ricorda la Meloni. Poi inizia a calare le sue carte: «Valuteremo quella proposta quando sarà formalizzata. Ci sono diverse questioni che riguardano tutti i ruoli apicali e le deleghe dei commissari, incluso quello italiano. Sicuramente l’Italia sarà protagonista e non spettatrice».

LA PARTITA EUROPEA si giocherà lì, nel Consiglio, e buona parte delle trattative, presumibilmente, non sarà trasparente. Le resistenze saranno strenue. Scholz ha già fatto sapere che anche lui «valuterà» la candidatura von der Leyen ma mettendo subito in chiaro che a sostenerla dovrà essere «una maggioranza democratica di partiti democratici tradizionali nel Parlamento europeo». Sembra una chiusura senza appello ma col terremoto a Parigi e il cancelliere in ginocchio tutto è molto più sfumato.

Macron, Scholz e Meloni ne parleranno a margine del G7 ma alla fine molto, se non tutto, dipenderà da come deciderà di muoversi la forza di gran lunga principale in Europa: il Ppe. Le strategie possibili nei confronti della destra all’arrembaggio sono due: un cordone sanitario stretto e rigido oppure una prudente apertura con l’obiettivo di impedire che le destre divise facciano blocco. Difficile pensare che la forza politica più rilevante d’Europa non abbia moltissima voce in capitolo su una scelta di tale portata.