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4 Novembre 2023Vent’anni dopo Il regista Riccardo Milani, oggi al cinema Astra, parla del film dedicato al Signor G «Se avessimo avuto la lucidità di ascoltarlo avremmo evitato la tendenza all’omologazione»
di Edoardo Semmola
Giorgio Gaber ha raccontato in mille occasioni di come sia stato il suo approdo in Versilia, e con esso il sodalizio nato con il pittore e coautore Sandro Luporini, a donargli quella sorta di «pace» a lungo agognata in un momento della sua vita dominato da incertezze, dubbi e sconvolgimenti emotivi che stavano provocando quella rivoluzione nello stomaco che avrebbe portato alla nascita de Il Signor G.
La storia è nota: alla fine degli anni Sessanta uno dei volti più celebri e amati della tv popolare stava per trasformarsi nel più lucido analista dei fenomeni psicologici e sociali della canzone d’autore italiana, in chiave di teatro-canzone. Ma nessuna intervista, nessun estratto di spettacolo sarà mai capace di rappresentare compiutamente quel «senso di pace» che Gaber cercava e che trovò sulla costa toscana quanto una telecamera discreta, silenziosa, quasi una carezza, che entra in punta di piedi nella casa album di ricordi che è villa La Padula a Montemagno di Camaiore.
La casa dove Giorgio Gaber morì nel giorno di Capodanno di 20 anni fa. E dove lo sguardo del regista Riccardo Milani si insinua nei primi minuti del film Io, noi e Gaber che lui stesso oggi presenterà in anteprima al cinema Astra di Firenze. È uno dei passaggi più delicati di oltre due ore di documentario: si fa capolino sulla grande terrazza, con la luce che si riflette sulle rigogliose fioriere con alle spalle gli imponenti alberi della campagna toscana. E con la compagna di una vita, Ombretta Colli, seduta su una panchina, lo sguardo a tre quarti verso l’alto, una lacrima impercettibile che le scende dall’occhio sinistro. Non dice una parola, ma il suo volto dice tutto. Se quelle inquadrature potessero avere un titolo, questo sarebbe «la pace di dentro».
La storia del film è la storia di Giorgio Gaber: c’è tutto, dai primi passi in Rai alle riflessioni sulla vita e sul mondo dei decenni successivi. Ci sono gli amici e la famiglia che parlano, dalla figlia Dalia a Michele Serra, Ivano Fossati e Jovanotti, Claudio Bisio e Ricky Gianco, Gianni Morandi e Paolo Jannacci, Pierluigi Bersani e tanti altri. La lista è lunghissima. Ognuno con il suo punto di vista sulla complessità dell’universo gaberiano. Ma il vero valore che dà Milani a una serie di documenti d’archivio che ogni appassionato di Gaber conosce a memoria è appunto lo sguardo sui suoi luoghi. Milano ovviamente fa la parte del leone, ed è impossibile non commuoversi addentrandosi guidati da Dalia nel bar del Gimabellino dove è ancora vivo il ricordo del Cerutti Gino dell’omonima ballata.
Ma è la Versilia a dare una profondità diversa alla narrazione, grazie a quella villa, alle scene di famiglia sulla spiaggia, e al celebre divano di casa Luporini dove sono state scritte tutte le canzoni e i monologhi della coppia e che ancora oggi è presidiato, a distanza di mezzo secolo, dall’ultranovantenne pittore. È stata, racconta il regista «una scelta inevitabile quella di esplorare i luoghi della sua vita, dove ha fatto determinate scelte, dove ha scritto le sue canzoni. La casa di Luporini soprattutto, dove insieme hanno scritto tutto, sedersi su quei divani che hanno sapori, emozioni, che rappresentano la scintilla della creatività, e incontrare Luporini seduto su quel divano e farsi raccontare quello che si dicevano e come lo dicevano, fino allo sfinimento, dà grande emozione. Ti fa rivivere i loro perché, cosa li motivava e li spingeva, recuperi “la persona” Gaber, l’individuo, la sua voglia di misurarsi con i temi spinosi che la vita ti mette davanti».
Riccardo Milani è nato nel 1958 e aveva esattamente 20 anni quando Gaber e Luporini portarono alla luce quel Polli di allevamento che «parlava anche di me, parole che arrivavano come macigni». È così che si è innamorato del Signor G. «La linea guida di tutto il film è il senso di riconoscenza e gratitudine per quello che ha fatto e detto nel corso del suo percorso — riflette Milani — Parliamo di un uomo che ha fatto tutto: grande musicista, grande cantante, personaggio televisivo, di teatro, e poi uomo di impegno civile che ha saputo raccontare il nostro tempo come nessun altro. Ho provato a raccontarlo con grande affetto e rispetto concentrandomi sui valori fondamentali che ha insegnato col suo lavoro: il coraggio di dire ciò che va detto, la capacità di indignarsi, di alzare la testa e guardarsi intorno con lucidità, di andare controcorrente facendo scelte scomode innanzitutto per se stesso».
Sono passati 20 anni esatti dalla scomparsa di Giorgio Gaber e «adesso posso ragionare su di lui come si fa su un uomo che molti decenni prima ha saputo predire il futuro che stiamo vivendo. Perché il nostro presente è il futuro che lui prospettava, siamo diventati quello che lui raccontava. Magari, se avessimo avuto la lucidità di dargli retta un po’ prima, alcune cose avremmo potuto anche evitarle, come una certa mancanza di coraggio e di dignità, una tendenza all’appiattimento e all’omologazione».
Ma non è solo un romantico sguardo sul passato ciò che fa di Io, noi e Gaber un film che vale la pena essere visto anche al cinema. C’è quello sul futuro, la capacità di parlare a una generazione che Gaber non ha potuto conoscere, per età: «La lezione di Gaber è ancora in grado di dare uno sguardo sulla vita — conclude il regista — e di far capire che ognuno di noi ha un potenziale, un’identità che dev’essere difesa e coltivata».
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