Tomaso Montanari
Due enormi cavalli in bronzo sono comparsi all’improvviso in piazza del Carmine, a Firenze. Passeranno, certo. E il problema non è se siano belli o brutti – tanto sono esteticamente e concettualmente insignificanti. Il problema è che fanno parte dello stock di una galleria d’arte, la Oblong Contemporary Art Gallery, che sabato scorso ha aperto la sua nuova sede fiorentina (le altre due sono a Dubai e a Forte dei Marmi…) proprio al Carmine. Nell’occasione, il Comune di Firenze ha pensato bene di trasformare in show room non solo quella piazza, ma anche altre due, piazza de’ Castellani e piazza del Grano.
Ora, la Galleria fa il suo mestiere: e cioè fa marketing dei suoi prodotti, che siano arredamento di lusso per ricchi o che siano “arte” (anche se, a dire la verità e anche un consiglio non richiesto, non so quanto paghi, a Firenze, presentarsi con tanta invadenza, con così poco understatement). Quello che, invece, il suo lavoro non lo fa è il Comune, che confonde spazio pubblico e mercato privato, e dimentica il livello sommo del tessuto urbanistico che è chiamato a custodire. Non ci si stanca di ripeterlo: in una città che ha piazza della Signoria, infilare due statue in una piazza dovrebbe far tremare le vene e i polsi.
E poi le piazze non sono terra di nessuno, e dunque terra di conquista. Sono invece di tutti: e perché continuino ad esserlo, bisogna che non diventino soltanto di qualcuno. È una morale semplice, quella che si insegna ai bambini quando vogliono tenere per sé un bel gioco che appartiene a tutta la classe. Ma è una morale difficile da far valere in un mondo, e in una città, nei quali chi ha più soldi può comprare davvero tutto: anche una piazza, anche la dignità di una storia straordinaria.
Piazza del Carmine, poi, non è una piazza qualunque. Non è un santuario del lusso, è una piazza popolare e operaia fin dalla sua nascita, nel Trecento. Una piazza che all’inizio del Novecento ha visto i primi grandi scioperi generali. Una piazza che ha visto gli atroci rastrellamenti delle madri e dei bambini ebrei da parte dei nazisti, e ha visto i partigiani combattere per la nostra libertà. Una lunga storia di ricerca di giustizia e liberazione: il cui protagonista è il popolo, un popolo povero, che Masaccio – nella Cappella Brancacci della Chiesa del Carmine – ha lì ritratto con una dignità insuperabile. Ed è una piazza ancora viva – vivissima –, non un vuoto da riempire, uno scatolone al quale trovare un senso. In un centro storico che è sempre di più solo una magnifica quinta architettonica di ristoranti e alberghi, l’Oltrarno resiste come quartiere intensamente vissuto e non ancora del tutto gentrificato. E se piazza Santo Spirito è intensamente vissuta da cittadini e turisti insieme, in piazza del Carmine giocano ancora a pallone i ragazzi del quartiere.
Quei due cavalli, dunque, non abbelliscono e non impreziosiscono: occupano, invece, uno spazio che è bello e prezioso proprio perché è vuoto, libero, felicemente inutile. È un fatto estetico, certo. Piero Calamandrei diceva della Toscana che “questa è la terra dove ci par che anche le cose abbiano acquistato per lunga civiltà il dono della semplicità e della misura: i composti panorami che, senza sbalzi di dirupi e asperità di rocce riescono di collina in collina a non ripetersi mai”. Ebbene, non comprendere questa misura, non significa solo non avere occhio, o gusto. Significa non aver capito il senso di questi luoghi amatissimi.
Quando piazza Navona, a Roma, fu finalmente pedonalizzata (come ha fatto, meritoriamente, questa stessa amministrazione comunale, proprio con piazza del Carmine), Cesare Brandi scrisse, sul Corriere della sera, che “sembrava veramente di attendere che non succedesse niente, di gustare questo non evento come un evento miracoloso e nuovo”. Ma a cosa serve, allora, un enorme vuoto urbano? “La città, che è l’espressione stessa dell’uomo, in quanto vive con l’uomo, e fa civiltà, e crea la cultura, la città deve anche poter sospendere l’uomo dal suo flusso ininterrotto di affanni e di lavori forzati”. In città, e in vite, troppo piene, dove ogni cosa serve a qualcos’altro, le piazze vuote sono un profetico segno di gratuità, liberazione, apertura: “come se fosse – scrive ancora Brandi – una festività ignota, qualcosa come un indulto, una sospensione, un miracoloso arresto”.
Per qualche tempo piazza del Carmine non sarà più quel miracoloso non-evento: ma non è in fondo così grave, perché prima o poi i cavalli galopperanno in qualche emirato, e il miracolo tornerà. Più grave (perché temo sia senza via d’uscita) appare questa perdita di capacità di leggere la città delle pietre (l’urbs), di sentirla, di interpretarla. Che è poi anche l’incapacità di leggere la comunità degli umani che la vivono (la civitas).
In fondo, la crisi della politica non viene proprio da qui, dall’oblio collettivo circa il senso della polis?