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6 Marzo 2023di Emanuele Trevi
Si finisce di leggere La terra inumana, il capolavoro di Józef Czapski pubblicato in Francia nel 1949, e inevitabilmente ci si chiede come sia stato possibile non averne mai sentito parlare. Non mi riferisco, ovviamente, agli specialisti di storia e letteratura polacche. Ma nella coscienza comune (se ancora ha un senso l’espressione) questo libro merita di stare accanto ad altre opere irrinunciabili che provengono direttamente dal cuore di tenebra del Novecento: le memorie di Nadežda Mandel’stam, Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati di Primo Levi, Stalingrado e Vita e destino Vasilij Grossman, La banalità del male di Hannah Arendt… Quando evochiamo questi titoli, e i grandi spiriti che li hanno prodotti, noi proviamo una specie di imbarazzo morale a definirli «capolavori letterari», quasi fosse, quello della loro bellezza, un argomento frivolo, sovrastato dalla loro natura di testimonianze decisive, esercizi radicali di verità, argini al dilagare del Male. Ma si tratta di un equivoco, e tra i tanti meriti della scrittura di Czapski c’è anche quello di aiutarci a dissiparlo.
La stessa vita di questo grande scrittore e pittore polacco, vissuto tra il 1896 e il 1993, sembra inventata da un romanziere mitteleuropeo. Rampollo di un’antica famiglia aristocratica, nacque a Praga in un antico palazzo di famiglia, studiò da ufficiale a San Pietroburgo ed entrò in cavalleria: appena in tempo per vedere, nel 1917, il vecchio mondo crollare per sempre. Czapski ne uscì vivo, tra innumerevoli rischi e avventure. Negli anni Venti si stabilì a Parigi, consacrandosi soprattutto alla pittura, con risultati niente affatto spregevoli, in linea con le ricerche di Paul Cézanne e dei post-impressionisti. Ma quando il caos e la guerra tornano ad abbattersi sul mondo, ritroviamo Czapski nella sua inappuntabile divisa da ufficiale, a difendere la patria contro Hitler. Per questo motivo, assieme a migliaia di altri soldati polacchi, nell’autunno del 1939 cadde prigioniero dei sovietici, in quel momento alleati dei nazisti.
Deportato assieme a migliaia di commilitoni, Czapski riuscì a resistere in condizioni inimmaginabili di violenza e privazione. Nel gulag di Grjazovec (Russia settentrionale), durante l’inverno 1940-1941, tenne delle conferenze su Marcel Proust, lo scrittore più amato, tra le mura diroccate di una chiesa ortodossa abbandonata. Non aveva, ovviamente, una copia della Recherche, e per fare rivivere il capolavoro a beneficio dei compagni Czapski dovette ricorrere esclusivamente alla sua memoria. Nell’estate del 1941, la scellerata alleanza tra Hitler e Stalin si ruppe, i nazisti invasero l’Urss e le autorità sovietiche decisero di liberare i prigionieri polacchi per farli combattere contro quelli che erano diventati i loro nemici. Costituita in quei mesi, l’armata polacca avrebbe finito la sua guerra combattendo per la liberazione dell’Italia a fianco delle truppe britanniche.
È qui che inizia il racconto della Terra inumana. A Czapski venne affidato il compito di rintracciare i soldati polacchi deportati due anni prima e sparsi nelle prigioni, nei gulag, nelle fabbriche sovietiche dov’erano trattati come schiavi. Era necessario esortare con ogni mezzo possibile le autorità sovietiche a rispettare i patti e liberare tutte quelle migliaia di prigionieri colpevoli solo di avere difeso la loro patria dai nazisti. Si trattava di un compito immane e insieme minuzioso, da svolgere compilando liste, facendo domande scomode, individuando strade percorribili nell’orrido labirinto dell’amministrazione penitenziaria sovietica. Ma i conti iniziarono da subito a non tornare: di troppa gente si erano perse le tracce, e le notizie dei rari scampati suggerivano con sempre maggiore coerenza un fosco scenario di sterminio, che diventò evidente nel 1943, quando i corpi di migliaia di polacchi innocenti vennero scoperti nella foresta di Katyn’.
Pur delineate in modo così sommario, sono queste le premesse storiche che hanno generato l’impresa letteraria di Czapski. È importante tornare su questo punto: La terra inumana è un libro attendibilissimo sul piano della verità, un documento di prim’ordine. Stabilito questo, potrebbe sembrare incongruo o futile insistere sul fatto che è l’opera di un grande scrittore. Non bastano i fatti, le prove? Dove finisce la Storia, insomma, e dove inizia la Letteratura, se da qualche parte deve iniziare? Qual è esattamente la differenza tra una ricerca storica sul modello del Libro nero del comunismo e La terra inumana? Se ci limitassimo a pensare che il libro di Czapski è «scritto meglio», mancheremmo di molto il bersaglio. Di fronte a crimini contro l’umanità come quelli raccontati, che senso ha scrivere «bene»? La realtà è che la letteratura non ha niente a che vedere con lo scrivere bene, e il capolavoro di Czapski, da questo punto di vista, è un insegnamento inestimabile.
Czapski non oppone all’«inumano», evocato fin dal titolo, un’idea astratta di giustizia e verità che, pur di segno opposto, rimarrebbe anch’essa inumana. Da vero scrittore, sa che la letteratura non è un’espressione elegante dell’esperienza, ma l’unico modo che possediamo di comprendere e valorizzare l’esistenza umana considerata dal punto di vista del singolo individuo. Perché le vittime, pur accomunate dall’annientamento, sono vittime ognuna a modo suo, nell’irripetibile configurazione di memorie, bisogni e desideri che caratterizza ogni essere umano nella sua unicità. Ed è per questo motivo che Czapski, all’inizio della sua opera, invoca «uno scrittore di genio, un grande osservatore, un nuovo Tolstoj o un nuovo Proust, russo o polacco». Un grande artista, insomma, idealmente capace di scomporre l’immane tragedia collettiva nell’infinità delle singole vite che la patiscono. Ed è per questo profondo motivo morale che il suo talento di scrittore si palesa al meglio nell’arte del ritratto. Di ogni persona tra le decine che affollano questo libro così corale, noi tratteniamo un dettaglio significativo, dal modo di portare la divisa al colorito della pelle, da una particolare inflessione dialettale a un tic rivelatore.
La tragedia collettiva è sempre implicita in queste pagine, pesa dalla prima all’ultima come un enorme e quasi imperscrutabile macigno, ma la prosa di Czapski punta tutto sulla percezione individuale, con il suo potenziale di de-formazione e approssimazione, perché questa è l’unica moneta davvero buona nell’inflazione delle verità ufficiali, delle sintesi, delle cifre complessive. Di una cosa siamo certi: così come parlano i pochi salvati di cui Czapski riporta le testimonianze, avrebbero parlato, uno a uno, le moltitudini di sommersi uccisi a Katyn’ con un colpo alla nuca o morti di stenti e fatica nei campi siberiani. Al polo opposto di questa concezione sta la filosofia che governa quello sterminato gulag che è la Russia sovietica, macchina di annientamento che funziona proprio a patto di annullare ogni differenza tra gli esseri umani, limitandosi a dividerli arbitrariamente tra carnefici e vittime. Tant’è vero che le straordinarie capacità ritrattistiche di Czapski vengono meno solo quando ci riferisce degli incontri ottenuti con qualche importante gerarca sovietico, come il generale Nasedkin, l’uomo a capo del sistema dei gulag siberiani, «padrone della vita e della morte di qualcosa come venti milioni di persone». Di questo mostro ben rasato come un ufficiale zarista, l’unico ricordo che rimane ai lettori di Czapski è quello delle sue mani paffute. Nemmeno coloro che hanno il potere di rendere inumani milioni dei loro simili possono resistere a questa forza livellatrice e vanificatrice, che è una forma di morte anche per i vivi.
Ecco perché dire che Czapski, che pure non era né Tolstoj né Proust, ha scritto la sua storia da grande romanziere non significa affatto metterne in dubbio il contenuto di verità e il desiderio di giustizia, ma solo riconoscere al suo libro la capacità di farci immaginare eventi, luoghi, persone come nessun documento, per quanto autentico, potrebbe fare.
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