Il direttore di “Civiltà cattolica” nel suo ultimo saggio racconta alcuni grandi maestri dell’arte americana. Ve ne anticipiamo uno
DI ANTONIO SPADARO
Mark Rothko per oltre 20 anni ha lavorato come insegnante d’arte in una scuola di Brooklyn, dove studiavano bambini dai 3 ai 14 anni. Questa stagione della sua vita ha inciso profondamente il suo animo. I dipinti dei bambini risultano «freschi, vividi e differenti». Rothko non teme di riconoscere in questi lavori vere e proprie opere d’arte. Perché «questi bambini hanno idee spesso acute, che esprimono con vivacità e stupore, riuscendo a trasmetterci quello che provano». Da queste parole si può dedurre chi si al’artista per Rothko: colui che è in grado di vedere cose ed eventi come se apparissero «per la prima volta, liberi dai sedimenti dell’abitudine e dalle convenzioni».
L’evoluzione artistica personale di Rothko lo vede inizialmente impegnato in rappresentazioni urbane nelle quali sopravvive la rappresentazione della figura umana. Dal 1946 — e siamo all’indomani del secondo conflitto mondiale — comincia a dipingere ciò che la critica ha voluto definire multiforms. Sono macchie di colore che sembrano sorgere dall’interno dei dipinti, e che si incontrano senza soluzione di continuità: si intrecciano, si compongono e si scompongono come nuvole. Le tele sembrano animarsi: è come se si mettessero a «respirare e a tendere le proprie braccia» verso lo spettatore. E le macchie sono gli attori di un dramma teatrale.
Tra il 1949 e i primi anni ’50 nelle sue tele comincia a delinearsi una disposizione orizzontale e parallela tra le macchie di colore, che diventano come rettangoli che ora hanno la stessa larghezza, ora invece si espandono sia verso il basso sia lateralmente. Le tele sono grandi fino a rasentare i 3 metri di altezza. L’artista vuole che lo spettatore sia risucchiato dentro: «voglio creare uno stato d’intimità — una transazione immediata. I dipinti di grande formato vi mettono al loro interno ». Niente può sostituire quest’immediatezza. Il margine alla fine apparirà allo spettatore, immerso nel colore, come un orizzonte più che come un limite. Rothko non è interessato alla rappresentazione, non ha nulla da «mostrare». Al contrario, crea la possibilità di un’epifania che si compie in quel luogo soggettivo nel quale la luce ci colpisce.
In Orange and Yellow, ad esempio, Rothko cerca la vibrazione di una luce viva, si potrebbe dire un assoluto con cui entrare in relazione, come se la tela fosse l’ultima incarnazione dell’icona. È, per citare laLettera agli Ebrei,«l’evidenza delle cose che non si vedono». L’artista, dando un senso forte — nient’affatto puramente emotivo — a questa esperienza, giunge a scrivere: «Quanti piangono davanti ai miei quadri vivono la stessa esperienza religiosa che ho vissuto io quando li ho dipinti». Questo, per Rothko, è l’«essenziale» dei suoi quadri, che «sfugge» se ci si interroga solamente sui rapporti cromatici. C’è in ballo, dunque, l’«esperienza di una realtà trascendente», «una sorta di preghiera a un dio sconosciuto», scrive.
Tutta la tensione di Rothko non è verso l’espressione di sé, dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti o delle sue idee o visioni, ma è verso la creazione di uno spazio di visione di cui artista e spettatore siano entrambi partecipi. L’opera d’arte ha come vocazione quella di essere non un «messaggio», ma una «finestra» sulla realtà, un’apertura sul mondo, capace di trasformare il modo ordinario di vedere le cose. L’artista è colui che ha il dono di aprire questa finestra sul mondo lì dove prima c’era un muro.
Sappiamo, del resto, che Rothko fu profondamente colpito dai mosaici bizantini che aveva ammirato in un suo viaggio in Italia negli anni ’50. Il loro sfondo oro esprime la profondità di una trascendenza che egli ha evocato in vari momenti riferendosi a «un rituale accolto come riferimento a un regno trascendente». In tal senso ci si potrebbe spingere fino a leggere le sue tele come the painted veil,un dipinto velo del Tempio o un’iconostasi, che insieme tende a nascondere e mostrare una Presenza. John e Dominique de Menil, una coppia di abbienti collezionisti di Houston, nel 1965 gli commissionarono alcuni dipinti per una cappella da realizzare nella cattolica University of St. Thomas. Così venne realizzata quella che è nota come la Rothko Chapel.
L’artista scelse una pianta ottogonale in modo da collocare i dipinti tutt’attorno la persona che entra nello spazio sacro. La luce doveva penetrare dall’alto, da una cupola, ed essere filtrata da teli. In tre anni furono realizzati 14 opere di grande formato. Rothko dipinge quadri monocromi: al centro un trittico in una tonalità marrone. Da questa tonalità ombrosa si staccano sfumature che vanno dall’indaco al cremisi, alla porpora, al blu, fino a divenire «vellutati poemi della notte». Essi, pur usando colori cupi, sembrano misteriosamente risplendere dall’interno.
Rothko aveva inaugurato nel 1964 la pittura monocroma con i cosiddetti Blackform Paintings, nei quali un’unica superficie di forma tendenzialmente quadrata fluttua su un fondo dalla tinta unita, fino a quadri nei quali sembra che sia nero dipinto su nero. Ad esempio, il dipinto No. 8che, ad un primo sguardo appare una semplice tela nera. Se però lo spettatore ha pazienza e si sofferma più a lungo senza passare subito oltre, scopre un gioco di contrasti tra il luminoso e il cupo, tra l’opaco e il lucido. Poi pian piano — e in questo Rothko sembra sfidare lo spettatore a una partecipazione intensissima e senza vie di fuga — l’occhio comincia a cogliere le sfumature marroni in basso. La figura non può essere catturata, sfugge di continuo e così si impone. Solo l’esperienza diretta può svelare all’osservatore queste sfumature. È ovvio che nessuna riproduzione a stampa, tra l’altro, potrà mai rendere la visione del quadro, che, riprodotto, apparirà sempre e comunque una semplice tela perfettamente nera.
Subito dopo lo stupore, lo spettatore che è rimasto paziente a guardare da questa finestra apparentemente cieca si rende conto del fatto che Rothko si è spinto oltre l’impossibile, cioè ha riempito di luce il nero. Di più: ha fatto sì che la luce si sprigionasse dal nero.
Tra il 1969 e il 1970, gli ultimi due suoi anni di vita, Rothko approfondisce ed estremizza l’uso di colori più cupi. È il tempo dei Black on Gray, o anche Brown on Gray, Paintings. Qui la bipartizione orizzontale è perfetta con rigore e distacco: la metà inferiore è grigia, quella superiore nera o marrone. Lungo la linea di separazione tra i due colori l’orizzonte si increspa come ad esprimere una forte tensione tra le due aree.
Rothko si è confrontato con il negativo della luce e del colore a cui aveva dedicato l’esistenza. Si è teso fino a trovare luce nel nero, ma a questo punto è come se si fosse aperto un abisso. La sua tensione verso l’assolutezza resa icona di luce e colore ha toccato il limite; è diventato confine teso tra grigio e nero. Ed è come se vedessimo Rothko, proprio lui, affacciarsi sul filo dell’orizzonte che separa grigio e nero nei suoi Black on Gray Paintings, fissando tensioni titaniche.
Dal 1946, a guerra mondiale finita, inizia a dipingere “multiforms”
Nei primi anni Cinquanta nelle sue tele comincia a delinearsi una disposizione orizzontale e parallela tra le macchie di colore che diventano rettangoli.