«Kenneth Pomeranz, in La Grande Divergenza, evidenzia come, per lunghi secoli, l’Inghilterra e l’area più evoluta della Cina, il delta del fiume Yangtze dove oggi sorge Shanghai, abbiano avuto livelli di sviluppo economico simili fra loro, mentre il salto in avanti dell’Inghilterra sarebbe avvenuto solo alla fine del Settecento per la vicinanza delle miniere di carbone alle prime forme di manifattura e l’accesso a piantagioni schiavistiche nei Caraibi. Robert Allen ha, invece, proposto una prospettiva molto più eurocentrica in La rivoluzione industriale inglese. Si può essere o meno d’accordo con le tesi della “grande divergenza”. Ma resta l’importanza di un punto di vista che colga la complessità degli andamenti di lungo periodo della storia».
Francesca Trivellato è una specialista che opera nel contesto intellettuale determinato dalla Global History, la storia globale che, pur riconoscendo importanza al Mediterraneo e all’Europa, considera con equilibrio le varie componenti internazionali nei processi che si sono attivati quando gli Oceani – l’Atlantico, l’Indiano e il Pacifico – hanno prevalso sul Mare Nostrum e hanno reso, in Europa, centrali Lisbona, Amsterdam e Londra.
Siamo alle Poste Vecie, un ristorante accanto al mercato di Rialto in cui la compresenza di turisti americani e tedeschi in viaggio di piacere e di professionisti veneziani in pausa pranzo crea un tessuto sonoro di accenti e di parole composito e a suo modo divertente. Oggi, purtroppo, fuori dal ristorante mancano le bancarelle che rendono questa parte di città una delle più vivaci e meno stereotipate.
Per quindici anni Trivellato ha lavorato al dipartimento di storia di Yale, dove ha appunto insegnato storia del Mediterraneo, storia dell’Europa moderna e storia del Rinascimento italiano. Nel 2018 è passata a Princeton all’Institute for Advanced Study, che – oltre a una importante comunità di fisici e matematici, «i più celebri in passato sono stati Albert Einstein e Robert Oppenheimer», ricorda Francesca – ospita un gruppo di umanisti e di scienziati sociali, sgravati da ogni incombenza di insegnamento, dediti solo alla ricerca.
Francesca sceglie come antipasto un piatto di granceola con maionese di mare e insalatina croccante. Io, invece, prendo un flan vegetariano su vellutate di verdure di stagione e mandorle tostate. La consapevolezza culturale che l’Europa – e gli Stati Uniti in subordine – non siano più centrali assume oggi, con la crisi del mondo a trazione occidentale, un significato più esteso e – in senso alto – civile e “politico”. Ed è tutta da cogliere nella sua profondità, in un passaggio storico segnato dalla debolezza dell’Europa, dallo sbandamento del gigante americano, dalla affermazione dei caratteri autocratici personali e istituzionali di Russia e Cina.
Il cameriere delle Poste Vecie ci descrive la cantina del ristorante, che ha ottimi vini del Nord-Est e delle altre regioni italiane. Nessuno dei due, però, cede alla tentazione. Francesca ha nel circuito intellettuale internazionale, una duplice posizione. Prima di tutto tenta di svolgere una funzione di raccordo fra gli intellettuali europei e americani. Quindi, prova a ridurre le distanze fra le discipline storiche e le scienze sociali che sono sempre più segnate dall’egemonia della economia, dai suoi metodi e dalla sua ermeneutica: «Esistono molte spaccature nella comunità degli studiosi. E ci sono molti incentivi a polarizzare queste situazioni. La storia economica, negli Stati Uniti e ovunque si segua il mainstream, può diventare un ramo dell’economia che dà maggior valore alle elaborazioni statistiche che alle fonti storiche. Io, nel considerare i grandi scenari, non disdegno i numeri ma prediligo un approccio meno deterministico. E conferisco importanza alla cifra culturale. C’è, poi, una differenza nella ricerca fra America ed Europa. In America tra gli storici è preponderante il lavoro del singolo studioso, il cui obiettivo è la stesura di una monografia che sintetizzi anni di ricerca. In Europa è l’opposto. Si costruiscono vasti gruppi di lavoro impegnati su uno stesso tema al fine di accedere ai fondi dell’Unione europea.
Nel mio piccolo, io provo a fare da cerniera fra
tutte queste differenze formali e sostanziali. È la vocazione mia, dell’Institute for Advanced Study di Princeton e della rivista “Capitalism” che, senza avere la pretesa di competere con le grandi riviste, segue lo stesso orientamento».
L’acqua è fresca e dissetante. Ma certo anche un bicchiere di amarone o di recioto non sarebbe stato male. Francesca ha nella parola orale un gusto del narrare che, per sua fortuna, non è sacrificato – nella scrittura delle sue pagine – all’inglese accademico standard, che ha il vantaggio della universalità ma che può scadere nella noia. Come primo lei sceglie degli spaghetti con canoce cotte e crude e zest di limone. Io, invece, prendo come piatto principale un tonno in crosta di pistacchio con verdure di stagione e patate schiacciate. Racconta mentre il pranzo procede spedito, mostrando come il particolare – nella narrazione storica – possa delineare il generale: «Basta pensare alla Venezia del Seicento e del Settecento. Le perline prodotte qui venivano acquistate dai mercanti di Lisbona. A Lisbona i commercianti portoghesi componevano dei pacchetti composti dalle perline, dalle armi da fuoco e dai tessuti. Andavano in Angola e così finanziavano la tratta degli schiavi neri che, dalla costa africana, arrivava in Brasile, l’ultimo Paese, nel 1888, a abolire la schiavitù, essenziale per lo sviluppo delle sue piantagioni di tabacco e di canna da zucchero e per l’estrazione dell’oro e dei diamanti dalle sue miniere».
Lei si intrattiene ancora sulle perline («se ne trova traccia anche nei commerci del Nord America, nell’espansione verso il grande nord del Canada, dove venivano scambiate con le pelle di castoro, e nell’avanzata verso l’Ovest di quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti») con lo stesso gusto con cui descrive la “sua Venezia”. Francesca – classe 1970, figlia di una urbanista impiegata in Comune e in Regione Veneto, Maria, e di un professore di statistica all’università di Padova, Ugo – è cresciuta in una casa ad equo canone nel quartiere di Dorsoduro, ha frequentato le scuole pubbliche e il liceo classico Marco Polo: «Venezia era una città interclassista. Esistevano l’alta borghesia e l’antica nobiltà. Prima della caduta del muro di Berlino e della crisi della nostra economia pubblica, avevamo le fabbriche chimiche e petrolifere e gli zuccherifici. In città, a inizio e a fine turno, incontravi gli operai del porto. Il turismo non aveva assunto le forme sfrenate e deformanti di oggi».
Trivellato ha avuto, all’università, due fortune. Ha trascorso il terzo anno a Berkeley, in California: «All’ufficio amministrativo di Ca’ Foscari, l’impiegato mi segnalò, oltre alle mete europee, anche quella possibilità». Si è formata in una delle scuole più laterali e più feconde della cultura italiana: la microstoria o, meglio, il modello di ricerca documentale e il codice interpretativo di uno dei suoi fautori principali, Giovanni Levi. «Levi poneva le domande giuste ai suoi allievi. Forniva un metodo. Ma non orientava gerarchicamente e dispoticamente gli interessi degli studenti. I suoi allievi hanno studiato i temi e i periodi più diversi. La mia tesi di laurea fu sulla storia del vetro nel Seicento e nel Settecento, i secoli della decadenza di Venezia. Quella tecnologia si assestò verso il basso con gli specchi di bassa qualità, prodotti soprattutto dalla comunità di immigrati dal Friuli e acquistati nell’Impero Ottomano, e con le perline. A confezionare le perline, che venivano spedite in tutto il mondo, erano donne mal retribuite che lavoravano negli intervalli della vita domestica».
II cerchio della buona sorte universitaria si chiude quando – dopo il dottorato in storia economica e sociale in Bocconi – Trivellato va a Providence, nel Rhode Island, alla Brown University, dove insegna un intellettuale importante come Anthony Molho e dove ottiene il suo PhD: «A Providence esiste una nutrita comunità di immigrati delle Azzorre. Per questo lo Stato portoghese ha contribuito a istituire, alla Brown, la cattedra Vasco Da Gama per la storia del Portogallo e dell’impero portoghese. Là ho iniziato a studiare la comunità formata dagli ebrei portoghesi che si erano trasferiti a Livorno, da dove rivaleggiavano con i loro concorrenti di Venezia nei commerci nel Mediterraneo e nelle nuove rotte verso l’Atlantico e verso il Pacifico».
Arrivano i caffè in tavola. E, mentre entrambi prendiamo della frutta fresca, nelle complessità descritte da Francesca Trivellato per le traiettorie di un Occidente che è una parte del tutto, mi rendo conto quanto siano vere – nel quotidiano atterrimento provato qui nella vecchia Europa, di fronte ai nuovi cicli della forza e alle nuove forme della guerra – le parole dell’imperatore Adriano scandite dalla più antichista e moderna delle scrittrici, Marguerite Yourcenar: «Vedevo tornare i codici feroci, gli dèi implacabili, il dispotismo incontestato dei principi barbari, il mondo frantumato in Stati nemici, eternamente in preda al terrore. Altre sentinelle, minacciate da altri dardi, andranno su e giù di ronda nelle città future».