«Scendere nei meandri – calarsi nei cunicoli – ispezionare gli ambulacri – visitare frugare nei corridoi segreti». Così, en passant, ammoniva Una guida per l’occhio. Tractatus Illogicus Philosophicus, semiseria raccolta di precetti messa a punto da un ventiquattrenne inarrestabile, Pablo Echaurren, su fogli di quaderno a lungo custoditi per sé solo.
Pablo Echaurren. Art for the Many (a cura di Martina Caruso, Jacopo Galimberti e Raffaella Perna) replica su un piano diverso il modus operandi del proprio oggetto d’interesse, componendo un’appassionata stratigrafia a più voci di uno dei talenti più autentici del nostro secondo Novecento. Abbattendo (a ragione) ogni barriera generazionale e geografica – gli autori lavorano in Italia, Inghilterra e Stati Uniti –, i curatori hanno chiamato a raccolta una decina di studiosi nell’intento di dare vita alla prima monografia in lingua inglese dedicata a un artista che ha fatto dell’inclassificabilità involontaria, della cocciuta fedeltà ai propri principi la sua matrice operativa. Ne nasce un volume temerario nella forma e nel pensiero, che rappresenta il culmine di un’avventura collettiva nata nel 2021, quando la Fondazione Echaurren Salaris, in collaborazione con la Biblioteca Hertziana, ha digitalizzato circa 10mila fogli prodotti e collezionati da Echaurren nella sua cinquantennale attività.
Disegni, appunti, fanzine, fumetti, copertine, riviste sono stati così messi liberamente a disposizione di tutti, appassionati e studiosi, con la generosità e la voglia di condivisione autentica che da sempre contraddistingue la coppia. Come anticipato dal titolo, l’insieme dei capitoli – saldando ricostruzione cronologica e approccio tematico – ricompone in dettaglio la vicenda intellettuale di chi ha attraversato le vicende del nostro Paese senza mai nascondersi dietro le comode barriere che per decenni hanno teso a separare nel campo culturale l’alto dal basso, il centro dai margini, l’arte dalla vita.
Classe 1951, Echaurren è, di fatto, uno dei pochi nostri artisti multidisciplinari; in questo pieno erede del padre elettivo, Gianfranco Baruchello, a sua volta guidato dalla stella fissa di Duchamp. I contributi ripercorrono con varietà di approcci, sempre però radicati al dato documentario, le molteplici attività del nipotino delle avanguardie tanto più ostracizzato dall’art world italico, quanto apprezzato all’estero (ma come sorprendersi?).
Pablo non si ferma, mai. Fa quadri e fumetti, jeans, orologi e pionieristiche graphic novel; crea e disfa riviste; si avvicina a Lotta Continua, ma ne fa arrabbiare i vertici per via dell’indole giocosa e antiretorica; scrive (lo ricordavamo il 18 maggio scorso su questo giornale) pagine divertenti e divertite; collabora con le carceri, mettendo a contatto il “dentro” e il “fuori”; come se non bastasse, ha dato vita insieme a Claudia Salaris, autrice di testi fondamentali, alla maggior collezione di documenti futuristi presente in Italia.
I saggi dei curatori costituiscono la spina dorsale di un lavoro che ha il suo principale punto d’interesse nel tentare di mettere a sistema la vicenda individuale col collettivo, i linguaggi dell’arte con la politica e la storia della cultura. Così, ad esempio, Raffaella Perna mette in dubbio la lettura di Eco, che aveva visto nel movimento del 1977 «l’ultimo capitolo delle avanguardie storiche», per riflettere sul rapporto tra controcultura e gli “artivismi” post-2008. Caruso e Galimberti si concentrano invece su momenti successivi – e, forse, meno noti ai non-specialisti – dell’attività dell’artista, ma altrettanto interessanti: la prima analizza le collaborazioni col carcere di Rebibbia, Galimberti esplora invece la declinazione lunga del rapporto con l’operaismo.
Altrettanto fruttuosi risultano però altri due filoni. In primis, quello rivolto a analizzare le modalità di attraversamento e rivisitazione delle avanguardie storiche, dal Surrealismo al Futurismo; quest’ultimo è oggetto del bel saggio di Jennifer Griffiths, che ricostruisce in dettaglio l’“archiviomania” del duo Echaurren-Salaris e le reti di rapporti – con intellettuali, studiosi e artiste – da cui nasce e si espande l’omonimo Fondo, in un momento in cui Marinetti era ancora considerato tabù da gran parte degli studiosi. Ma il più innovativo è il filone volto a esplorare l’interesse precocissimo per il mondo naturale («volevo fare l’entomologo», ricordava nel gustoso memoir Il mio Baruchello). Gli alfabeti di costellazioni, rocce, insetti si inseriscono in una linea post-antropocentrica rilevabile tanto nella sintassi dei “quadratini” anni 70 (analizzata da Daniel Spaulding, che suggerisce come, anziché replicare la sequenzialità del fumetto, la griglia «evoca la narrazione per poi sconvolgerla») quanto nei recenti Neander Tales, oggetto dei saggi di Marica Antonucci e Pierpaolo Antonello.
Quasi mai ci troviamo davanti a testi apologetici, o xerografici; merito di questo volume è anzi quello di rileggere Echaurren against the grain, come il giovane Indiano metropolitano auspicava per Duchamp (in Rouge Selavy. Duchamp rivisitato, anche): «Duchamp non è un feticcio, non è un mostro sacro a cui accostarsi in punta di piedi, a capo chino. È un distruttore, un sobillatore, un agitatore. […] È un progetto esistenziale. È la scommessa dell’arte contro l’arte. Della anti-arte. Giù le mani dal compagno Marcel!».
Pablo Echaurren.
Art for the Many
A cura di Martina Caruso,
Jacopo Galimberti
e Raffaella Perna
Silvana Editoriale,
pagg. 216, € 50