Attribuire a Elly Schlein la responsabilità del pessimo risultato che il Partito democratico ha ottenuto nelle ultime elezioni amministrative sarebbe sbagliato e ingeneroso. Non soltanto perché si tratta di un voto di portata limitata, né perché è diventata segretaria del partito da poche settimane. Ma perché le difficoltà dei democratici sono, a ben vedere, la manifestazione locale di una crisi più generale nella quale la sinistra versa in pressoché tutte le democrazie avanzate, come hanno dimostrato da ultimo anche le elezioni greche e spagnole. Il discorso va allargato, allora: da quale malessere sono affette, le forze politiche progressiste?
La risposta che propongo è: da un malessere soprattutto culturale. Ma come – si obietterà – ma se da settimane non si parla d’altro che della presunta egemonia culturale della sinistra! Adesso scopriamo invece che la cultura non è il punto forte del progressismo, ma è quello debole? Sì, credo che le cose stiano esattamente così. Mi sembra che il progressismo sia in effetti culturalmente egemone, per lo meno nel senso che, all’interno delle istituzioni e fra le professioni in senso lato culturali, quanti vi si riconoscono sono in larghissima maggioranza. Ma mi sembra pure che a quest’egemonia non corrisponda la capacità di elaborare un pensiero adeguato alla nostra epoca. Un’incapacità che rende il predominio sterile ma anche, paradossalmente, più visibile e irritante di quanto non sarebbe altrimenti.
Negli ultimi decenni la cultura progressista ha perso in larga misura il contatto con la realtà. Si è molto concentrata sui propri valori, su come riteneva che la realtà dovesse essere in astratto, e si è troppo spesso dimenticata di descriverla, comprenderla e concettualizzarla, invece, per com’è in concreto. Sia chiaro: il desiderio di cambiare il mondo, l’enfasi su quel che si vuole costruire domani piuttosto che su quello che si ha oggi, appartiene da sempre al progressismo. Che del resto non si chiama così per caso. In altri momenti storici, tuttavia, fra realismo e tensione ideale c’è stato assai maggior equilibrio. Allora le forze politiche di sinistra erano capaci eccome di mordere la realtà – anzi, la mordevano meglio di chiunque altro. Oggi non è più così.
Non è facile spiegare perché ciò sia avvenuto. Se ne dovessi cercare la ragione principale, tuttavia, andrei a frugare negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ovvero nel momento in cui l’attenzione comincia a spostarsi dal mondo della materia, e in particolare dell’economia, a quello delle rappresentazioni mentali. In quel momento, caratterizzato non per caso da una riscoperta globale del pensiero di Gramsci, una parte considerevole della cultura progressista si convince che manipolare i discorsi basti a modificare la realtà. L’egemonia culturale smette di essere un corollario, per quanto importante, dell’azione politica e ne diventa l’essenza: la diffusione dei valori progressisti cambierà il mondo perché cambierà il modo di pensare e quindi di comportarsi degli esseri umani.
Non si può dire che la strategia sia stata sterile. Tutt’altro: i discorsi sono cambiati radicalmente e hanno in effetti modificato pure la realtà. Ma non abbastanza: i fatti si sono dimostrati ben più duri di quel che si pensasse. Irritati da questa loro resistenza, molti fra i progressisti hanno inasprito i propri discorsi – visto che non mi ascolti, hanno pensato, urlo ancora più forte. Fra la loro cultura e le vite concrete della maggioranza degli esseri umani si è così aperto uno iato che, col tempo, si è venuto facendo sempre più ampio e profondo. È anche in quello iato che è nata l’insurrezione politica cosiddetta populista.
Schlein, si diceva, non può avere colpa se le elezioni amministrative le ha vinte la destra. È lecito invece domandarsi di che tipo di cultura sia portatrice, ovvero se sia la persona adatta a ricostruire il collegamento perduto fra il progressismo e la realtà.
Almeno per quel che si è sentito finora, temo che la risposta a questa domanda debba esser negativa: il mondo mentale di Schlein appare largamente dominato dalle petizioni di principio. E non è questione di radicalismo. Certo, per i riformisti è più facile essere realisti, ma questo non vuol dire che non possano esserlo anche i radicali. Alcuni grandi momenti della storia della sinistra sono stati segnati dalla compresenza di realismo e radicalismo.
Prendiamo due esempi ormai «classici», la guerra in Ucraina e la costruzione di un termovalorizzatore a Roma. Due argomenti sui quali, com’è noto, Schlein ha mostrato più di qualche titubanza. A partire da quel che ho scritto sopra, mi pare che queste ambiguità si spieghino così: i valori ambientalisti e pacifisti della segretaria democratica la spingerebbero a frenare sull’Ucraina e a opporsi senz’altro al termovalorizzatore; la realtà tira però, con prepotenza, nella direzione diametralmente opposta; e alla fine Schlein è costretta a piegarsi, ma lo fa malvolentieri. Accetta così di far convivere le proprie convinzioni con la lezione dei fatti, ma è una convivenza forzata e artificiale. Ecco: una cultura vitale non subisce i fatti come un pugno in faccia. Una cultura vitale, anche radicale, assorbe la realtà, la fa propria, si avvolge e ricostruisce intorno a essa, la digerisce e rielabora. La sa pensare per com’è e ne sa pensare al contempo il cambiamento per come vorrebbe che fosse.
E la destra? La cultura di destra è forse più adeguata alla realtà di quella di sinistra? Assolutamente no. Conservatori e liberali, come detto, sono molto minoritari nelle istituzioni e fra le professioni culturali. E per quanto si son fatti sentire in questi ultimi mesi, hanno impiegato il proprio tempo soprattutto a lagnarsi dell’egemonia altrui e a celebrare un Pantheon a cui non manca qualche quarto di nobiltà, ma che al giorno d’oggi serve a ben poco. La destra non vince le elezioni malgrado le manchi l’egemonia culturale, allora – le vince proprio perché non ce l’ha. Perché viaggia leggera, perché può mettersi in contatto diretto, senza alcuna mediazione, col senso comune degli elettori. E in quel senso comune, se non è affatto detto che vi si trovi la realtà, si trova tuttavia la realtà per come la vivono le persone qualunque. Non poca cosa, per chi desideri raccoglierne il voto.