She Reeled Us In With The Odyssey. Now: The Hard Stuff
1 Ottobre 2023Il fotografo che non si ferma davanti a nulla
1 Ottobre 2023
Stefano Bucci
Se non suonasse irriverente, si potrebbero paragonare le sagome allungate degli eroi di El Greco (i santi, i cavalieri, le Maddalene) all’extraterrestre di E.T. di Steven Spielberg o a quello di Asteroid City di Wes Anderson. Anche perché lo stesso Doménikos Theotokópoulos, detto El Greco (1541-1614), è stato un artista capace di oltrepassare (proprio come si conviene a ogni buon extraterrestre) i confini dello spazio, del tempo, dell’arte: nasce a Candia (Heraklion), sull’isola di Creta, e muore a Toledo, in Spagna, dopo essere passato per Venezia, Roma, Madrid; si ispira alle antiche icone bizantine e diventa a sua volta modello (dopo un lungo periodo di oblio durato per tutto il XIX secolo) della modernità, fondamentale precursore del concetto di «non finito» di Goya, Manet, Cézanne, Bacon, amatissimo da Rilke e dai romantici. Non a caso Juan Antonio García Castro (curatore con Palma Martínez-Burgos García e Thomas Clement e Mila Ortiz della grande monografica che si apre l’11 ottobre al Palazzo Reale di Milano) lo definisce «l’Andy Warhol del XVI secolo». Lo stesso García Castro sottolinea un altro elemento che avvicina El Greco agli extraterrestri di Spielberg e Anderson: «I suoi personaggi parlano solo con i gesti, le bocche non sono mai aperte per fare uscire parole, per conversare; per loro si esprimono le mani, le braccia, i corpi».
E se la mostra del 2019 al Grand Palais di Parigi aveva sottolineato l’uso rivoluzionario del colore mentre Picasso, El Greco y el Cubismo analítico (appena conclusa al Prado di Madrid) ha messo in primo piano l’influenza di El Greco su Picasso, ampliandone i limiti al periodo giovanile e alle opere mature come Acordeonista (1911) e El aficionado (1912), quella di Milano sembra essersi voluta dedicare prima di tutto al profondo legame tra l’artista e l’Italia (tra le sorprese anche l’unico quadro di soggetto mitologico, il Laocoonte, 1619-1674). In questo cortocircuito spazio-temporale-artistico El Greco troverà in Italia uno dei punti di riferimento più saldi: Michelangelo (come disegnatore e scultore), Parmigianino, Correggio, Bassano, Tiziano, Tintoretto e più in generale tutta la scuola veneziana (i rossi, gli azzurri, il magenta, i verdi). Lo stesso soprannome (El Greco e non El Grieco) gli sarebbe stato dato a Roma e gli spagnoli semplicemente lo avrebbero mantenuto.
A testimoniare ulteriormente lo straniamento di questo pittore «dell’invisibile» ci sono, nella mostra milanese — oltre 40 le opere esposte —, i prestiti eccellenti da ogni parte del mondo: dal Louvre, dalla National Gallery di Washington, dalla Galleria nazionale di Parma, dagli Uffizi, dalla Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano, dal Legion of Honor Museum di San Francisco, dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, dalla Carrara di Bergamo), cominciando come è logico dalla Spagna (Madrid, Valencia, Barcellona, Toledo, Valladolid, Cadiz, Vitoria-Gasteiz, Paradas, Palencia).
A raccontare il legame con la scuola italiana sono dipinti come il Trittico (1568-1569) della Galleria Estense di Modena che guarda a Tintoretto, nella composizione delle figure, e ai maestri veneziani, nella tavolozza cromatica. Una vicinanza che si ritrova nell’unico El Greco oggi conservato nella Galeria de las Colecciones Reales di Madrid: l’Adorazione del Nome di Gesù (1577-1579) che rimanda appunto al Trittico di Modena: «Mai nessuno come lui — ripete García Castro davanti a questo olio su tela relativamente piccolo (140 centimetri per poco più di 100) per certi standard di El Greco — è stato capace di rappresentare l’irrappresentabile». Eppure, a testimoniare l’imprendibile fascino dell’artista, lo stesso dipinto potrebbe essere interpretato, secondo alcuni critici, anche come un’allegoria della Lega Santa (Spagna, Venezia, Papato) che sconfisse i Turchi nella battaglia di Lepanto (1571) dove accanto a beati e dannati (nella parte inferiore sinistra) potrebbero essere stati rappresentati (sempre con un occhio a Tintoretto e alla scuola veneziana) Filippo II, il Doge Alvise Mocenigo, il Papa Pio V e Don Giovanni d’Austria.
E pensare che, per qualcuno, quelle sue figure allampanate sarebbero state frutto «solo» di un suo presunto astigmatismo. La maestosa Lavanda dei piedi (1548-1549) di Tintoretto, nella Galleria Centrale del Prado, anticipa idealmente gli effetti della passione di El Greco per Venezia e per quel maestro «capace di costruzioni audaci, sempre pervase di idealismo». Bastano pochi passi per averne conferma: le due stanze dedicate a El Greco offrono dipinti che in qualche modo ripropongono la stessa audacia e lo stesso idealismo. Una sequenza di capolavori che si apre con la Trinità (1577-1579), prima opera realizzata a Toledo, per il convento di Santo Domingo el Antigo, dopo il rientro da Roma, e che si chiude con l’Adorazione dei pastori (1612-1614) dipinta per il retablo destinato alla tomba dell’artista nella chiesa dello stesso convento (di quella tomba e delle ossa di El Greco si è persa traccia dopo la distruzione dell’edificio). Nel mezzo ci sono capolavori come il Cavaliere anziano (1587-1600), le tele sopravvissute del Retablo Mayor (1597-1600) nel Collegio di Maria d’Aragona o il sorprendente Giovinetto che soffia su un tizzone ardente (1580 circa).
Al periodo italiano («Dialoghi con l’Italia» è il titolo di una delle cinque sezioni della mostra milanese) rimandano direttamente l’Annunciazione (1570-1572) e la Fuga in Egitto (1570 circa) dove compaiono ancora quei paesaggi e quelle architetture che El Greco abbandonerà per poi recuperarle solo nel periodo conclusivo della sua esistenza, in particolare proprio nell’Adorazione.
«El Greco è sempre rimasto anche in Spagna un pittore veneziano, romano, italiano — spiega Andrés Úbeda, direttore aggiunto del museo madrileno che presta alla mostra di Milano il ritratto di Jeronimo de Cevalhos (1613) e il San Francesco d’Assisi e frate Leone che meditano sulla morte (1600-1614) —, un pittore che sarà capace di imporre l’idea di un’arte libera e autonoma che non può più essere avvicinata all’artigianato». Un’arte nuovissima che guarda al passato, rileggendolo: per la Trinità volge lo sguardo ancora una volta alla tavolozza di colori dei veneziani, ai corpi di Michelangelo (che definirà «un povero uomo che non sa dipingere» e che amerà invece profondamente come scultore), ma allo stesso tempo anche a Dürer (la sua incisione che ha ispirato questa Trinità verrà stravolta da El Greco attenuando il ruolo delle piaghe e accentuando il rapporto emotivo tra il Padre e il Figlio).
Pur anteriore a Velázquez e Goya, gli altri giganti della scuola spagnola, El Greco è stato riscoperto soltanto molti anni dopo di loro, forse perché troppo intellettuale, forse perché (secondo la Chiesa) le sue opere religiose non aiutavano la devozione, forse perché è sempre rimasto uno spirito libero. Che sentiva Tintoretto ancora più vicino di Tiziano nel comune destino «di non essere amato da principi e da vescovi». Del Martirio di San Maurizio, la monumentale tela (448 x 301 centimetri) dipinta tra il 1580 e il 1582 per il Monastero dell’Escorial, si sa per certo che non piacque a Filippo II, il quale già nel 1584 la fece rimuovere e sostituire con un’opera commissionata al ben meno geniale Romolo Cincinnato. Che, al contrario di El Greco, ripropose con successo al sovrano la rappresentazione più classica del Martirio: corpi dilaniati, teste mozzate, vittime e carnefici. La versione di Cincinnato si trova oggi nella Cattedrale del complesso, mentre quella di El Greco venne relegata (proprio per volere del re) all’interno del monastero. A indispettire il sovrano sarebbe stata, in particolare, la rappresentazione di San Maurizio, non mentre viene martirizzato (su ordine dell’imperatore Diocleziano per avere rifiutato sacrifici verso gli dèi pagani), ma mentre arringa i suoi legionari «se convertirsi o meno» (eventualità improponibile al tempo della Controriforma). Privilegiando così, per García Castro, «il gesto intellettuale piuttosto che il sacrificio fisico» e finendo per scontrarsi con la volontà del sovrano che aveva scelto il soggetto anche per la presenza di gran parte delle reliquie del santo all’Escorial.
Ancora una volta tra l’artista e il suo committente non scattò la scintilla, una circostanza frequente per El Greco, all’epoca considerato quantomeno «singolare» se non «un bizzarro pittore ellenico» discepolo di Tiziano, che per tutta la vita avrebbe avuto liti con i clienti e questioni legali sulla valutazione dei prezzi delle commissioni (Filippo II pagò comunque 800 scudi per San Maurizio, molto più delle quotazioni del tempo). Era successo a Roma, quando Doménikos Theotokópoulos (come si firmava) si scontrò con il principe Alessandro Farnese; e poi di nuovo a Toledo dove l’Espolio (1577-1579), commissionato dal Capitolo della Cattedrale per la sagrestia del Duomo di Toledo provocò una controversia chiusa con l’accettazione da parte del pittore di un compenso significativamente inferiore a quello pattuito.
Il Martirio di San Maurizio, con i corpi fasciati di colori veneziani e i gesti esasperati, rimanda a un’altra opera in mostra a Palazzo Reale (San Martino e il mendicante, 1597-1599, dalla National Gallery di Washington). Ma l’Italia sembra essere nuovamente scritta nel destino di El Greco, perché un altro Martirio, quello di San Lorenzo dipinto da Tiziano nel 1564 (che aveva già affrontato il soggetto nella Chiesa dei Gesuiti a Venezia), è ancora una volta a pochi passi da San Maurizio, in una cappella dell’Escorial.
Toledo è stata per El Greco un punto fermo, il luogo dove rifugiarsi, aprire (finalmente) bottega ed elaborare uno stile definitivo. Qui si misurerà con successo con scene religiose e dipinti devozionali, creando un gruppo di clienti affezionati. A Milano da Toledo arrivano la Sacra Famiglia con Sant’Anna (1595 circa), il Battesimo di Cristo (1614 circa), un’altra Sacra Famiglia con Sant’Elisabetta e San Giovanni (1585-1590), un San Domenico in preghiera (1600-1605), un San Luca (1602-1605). E due capolavori della casa-museo dedicata all’artista (una ricostruzione perché la vera casa fu distrutta da un incendio): il Salvatore benedicente (1600-1610) e il San Pietro in lacrime (1585). Mentre nella città resterà il prezioso San Giuseppe col Bambino nella Cappella di San José (tuttora di proprietà della famiglia che aveva in origina commissionato la tela a El Greco).
Palma Martínez-Burgos García e Mila Ortiz, co-curatrici della mostra milanese, raccontano con entusiasmo la novità di questi due dipinti realizzati secondo un modello che El Greco aveva inaugurato con il ritratto (a mezzo busto, su uno sfondo neutro) del Cavaliere con la mano al petto (1580 circa) al Prado: «Sono il prototipo del ritratto psicologico, anticipano l’estetica del non-finito, stabiliscono un rapporto diretto, senza distrazioni con lo spettatore». Lavorando per sottrazione a partire da un rosso ancora una volta molto veneziano, El Greco costituisce una sequenza di personaggi (modernissimi nella loro non-bellezza, contrassegnati da una religiosità molto contemporanea. Come modernissimo è il San Bernardino (1603 circa) oggi in prestito dal Prado al Museo di El Greco: «In questo ritratto si intrecciano Cubismo e il Manierismo in stile Parmigianino contrassegnato da teste piccole, membra grandi, corpi allungati come fiamme».
Nel volto di San Bernardino El Greco ha rappresentato il figlio naturale Jorge Manuel Theotocópuli (1578-1631), lo stesso che si ritrova tra i protagonisti della sua opera più celebre: El entierro del conde de Orgaz (1586-1588), dipinto enorme per dimensioni (480 x 360 centimetri) e fascino, capolavoro ammirato, copiato e citato da molti (Picasso su tutti, che si ispirò ad esso per la Sepoltura di Casegemas), tesoro conservato in una piccola cappella (sempre affollatissima di visitatori) della Iglesia de Santo Tomé, per la quale è stato realizzato, dalla quale non è mai uscito.
Secondo quella maniera così poco convenzionale che non conquistò mai Filippo II, El Greco mette in scena il miracoloso seppellimento di Gonzalo Ruiz, conte di Orgaz, benefattore della città di Toledo, che avrebbe visto apparire i santi Stefano e Agostino per collocare il corpo del defunto (il diacono ha lo sguardo rivolto al cielo mentre il vescovo all’estrema destra sfoglia il Libro dei Morti per impartirgli l’estrema unzione). Ancora una volta El Greco guarda all’Italia, citando la luce e i colori di Tintoretto e Tiziano, all’interno di una composizione fatta anche di volti e figure (San Giovanni Battista, San Pietro, un gruppo di spettatori in abiti «moderni»). Sarebbe proprio il figlio Jorge il giovane in prima fila, vestito di nero, il volto racchiuso da una gorgiera come molti personaggi ritratti da El Greco (alla sua data di nascita corrisponde la data impressa sul fazzolettino che fuoriesce dalla tasca della figura) fermato nel gesto di attirare l’attenzione dello spettatore (con il dito alzato) sul miracoloso evento.
L’evento è raccontato da El Greco in un modo così unico («Come Jesus Christ Superstar» dice Martínez-Burgos García) da finire al centro del romanzo El Labirinto (1974) dell’argentino Manuel Mujica Lainez (1910-1984). Anche lui così affascinato dall’Italia da scrivere un altro romanzo, stavolta su Bomarzo (1962) e sul suo miracoloso giardino dei mostri (in provincia di Viterbo) a meno di mezz’ora da quella Caprarola dove El Greco si rifugiò una volta cacciato dalla Roma dei Farnese.
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