Michela Marzano
Carta e penna: quand’ho bisogno di riflettere, chiudo il computer e stacco il cellulare, prendo un foglio e inizio a scrivere – una parola, un’altra parola, una freccia che le collega oppure le oppone, una cancellatura, quindi, forse, anche una frase. Poi, per carità, quando si tratta di redigere, riapro il computer e vado dritta; ma senza carta e penna il cervello mi si blocca. Sono antiquata e vecchia? Senz’altro. Ormai sono passati vari decenni da quando andavo a scuola, e le nuove generazioni le incontro solo nelle aule dell’università. Ma anche le mie studentesse e i miei studenti, molti dei quali poco più che ventenni, preferiscono utilizzare carta e penna quando proviamo a ragionare insieme su un dilemma morale: pure loro lo sanno che, con lo smartphone, non vanno lontano; e anche se lo usano per cercare informazioni e notizie, magari rinfrescarsi la memoria sul significato esatto del concetto di dignità della persona o del principio di utilità, è poi sui fogli che costruiscono lo schema del ragionamento. Hanno imparato da piccoli a usare tablet e computer, ma sanno (ancora) fare la differenza tra apprendimento e gioco. Non tutti, certo! C’è pure chi snobba le vecchie biro e si lamenta che prendere appunti a mano è faticoso, che dopo un po’ la mano si stanca, che manca l’abitudine e… velocemente smette pure di ascoltare. Posso, però, dire sommessamente che, al momento degli esami, la differenza tra chi utilizza solo strumenti digitali e chi, invece, ibrida – passando dal computer al quaderno degli appunti, da Google Sheets alla versione cartacea di un libro –, si vede?
Per carità, nessun rimpianto dei bei vecchi tempi, che poi non erano nemmeno così belli come qualcuno vorrebbe farci credere, con tutte quelle maestre e quei maestri che davano il voto basandosi anche sulla calligrafia, come se la profondità o il rigore di un tema dipendesse dalla forma più o meno arrotondata delle lettere o dalla presenza o dall’assenza di cancellature invece che dalla sostanza delle idee. Però. Come sempre è una questione di misura. E, forse, sarebbe opportuno che genitori, maestri e professoresse ricordassero ogni tanto ai più giovani che gli strumenti che si utilizzano non sono del tutto neutri, e che saper passare dallo smartphone alla carta, non solo è utile, ma è anche affascinante: si aprono orizzonti inaspettati quando il pensiero prova a lasciare una traccia scritta a mano; talvolta, si riesce persino a tirare fuori ciò che non si sapeva di sapere, come se qualche cassetto del cervello si fosse spalancato all’improvviso. E lo stesso discorso vale per i libri stampati. Anche in questo caso, per carità, niente rimpianti inutili dei (bei) vecchi tempi, sono la prima a stoccare sul mio tablet decine e decine di iBook per evitare di portarmi in giro chili di carta. Ma. Sono la sola a pensare che, quando un libro lo leggo in versione pdf (o in qualunque altro formato digitale), poi svanisce? Sono la sola a voler rileggere su carta un romanzo (o un saggio) che ho trovato bello, perché così quelle frasi che mi hanno colpito poi restano intatte nella memoria e, aprendolo a distanza di anni, ci ritrovo dentro tutto, persino le emozioni esatte provate quando l’ho letto la prima volta?
Sono antiquata. Senz’altro. Ma penso anche che, se noi adulti (e non nativi digitali) fossimo capaci di raccontare queste cose ai nostri figli e ai nostri studenti così, semplicemente e senza moralismi, riusciremmo, forse, a incuriosirli e, forse, pure a dar loro la voglia (o la curiosità) di utilizzare non solo smartphone e tablet, ma anche carta, penne, e libri stampati. Non si tratta, d’altronde, di opporre due modi opposti e alternativi di pensare, ragionare, scrivere o leggere. Si tratta unicamente di provare a conciliare ciò che, solo in apparenza, è inconciliabile, per sperimentare fino in fondo la ricchezza di tutto quello che ci circonda e di cui, oggi, disponiamo.