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Sono i primi giorni di scuola per Enrico Galiano, insegnante dell’istituto comprensivo di Chions, in provincia di Pordenone, il professore che scrive libri, realizza webserie sulla scuola e ogni mattina va in classe per imparare dai suoi alunni come ha scritto nel suo ultimo libro, un manuale di lezioni al contrario, dove le ragazze e i ragazzi sono gli insegnanti e i professori gli studenti. Si intitola Scuola di felicità per eterni ripetenti (Garzanti) e sarà presentato il 15 settembre a Pordenonelegge.
Che cosa si aspetta dal prossimo anno scolastico?
«Mi auguro che le lezioni che i due anni e mezzo di pandemia ci hanno impartito vengano messe in pratica e gli studenti siano finalmente posti al centro delle relazioni. E’ sempre più chiaro che fare scuola non significa spiegare i polinomi o le regole di grammatica ma prima di tutto vuol dire creare una relazione con lo studente».
I migliori insegnanti sono eterni ripetenti, scrive nel suo libro.
«Non nel senso che ripetono sempre le stesse cose ma nel senso che ogni conoscenza è dentro di noi e quindi è innanzitutto un atto di riconoscenza perché impari ogni giorno. E’ un modo di disporsi non solo per impartire le lezioni ma per rendersi conto di aver sbagliato tutto e dover sempre ricominciare daccapo».
Ricominciare daccapo è il destino degli insegnanti. Mentre gli studenti crescono e se ne vanno, loro restano e ricominciano a settembre il ciclo di lezioni.
«E’ la pietra di Sisifo degli insegnanti, un aspetto quasi tragico del nostro lavoro. Loro crescono e tu resti lì. E’ un aspetto anche bello perché è uno dei mestieri che ti preservano dall’invecchiamento se si è disposti a farsi fare un restyling del cuore, scoprendo punti di vista che non avevi mai considerato».
Per esempio che è necessario farsi odiare?
«E’ una delle lezioni più difficili da mandare giù. Significa capire che il no non è un divieto ma un ingrandimento di esperienza. E’ dalla privazione che nasce il carattere, sono i no che aiutano a crescere. Sapere che ci si fa odiare perché si vuole bene è l’aspetto artistico di questo mestiere».
I cattivi non sono poi così cattivi?
«Cattivo viene da prigioniero. E’ un approccio frettoloso considerarli cattivi, sono prigionieri di qualcuno. Nella mia esperienza il bullo è quello che più ha bisogno di attenzioni, che non ha mai avuto una parola di riconoscimento positivo, non ha ricevuto gli sguardi degli adulti che per gli adolescenti sono necessari come l’acqua nel deserto. In genere durante i colloqui i genitori dei bulli sono quelli che non si vedono mai, quelli con cui non riesci a parlare nemmeno se li chiami. E’ la prova che i bulli sono quelli che hanno maggiore bisogno del nostro amore, dell’attenzione, dell’ascolto».
Una delle lezioni del libro è dedicata al rispetto, è così importante?
«Una volta ho visto due ragazzi maschi arrivare a scuola mano nella mano. E’ una cosa molto femminile, e loro erano considerati molto uomini dai loro compagni. Nessuno ha avuto da ridire. Mi sembra una grande conquista che le idee si facciano gesto e vengano espresse attraverso i gesti senza tanti proclami. So che ci saranno le elezioni, probabilmente vinceranno quelli lì ma non vinceranno le loro idee. Hanno una data di scadenza le idee di chi vuole rinchiudere tutto negli slogan dio patria e famiglia e pensa che le persone siano a compartimenti stagni».
Come si fa con le diverse velocità di apprendimento?
«Ogni anno capita lo studente che ha tempi più lenti degli altri. E’ istintivo provare un certo fastidio. A volte, però, sono quelli che hanno una capacità di osservare, di riflettere e di avere uno sguardo originale che viene sottovalutata. Secondo i fisiologi la nostra società viaggia troppo veloce, la nostra mente non è abituata. Forse hanno ragione i lenti, non chi va troppo veloce».
Quanto sono cambiati gli studenti dopo due anni di lezioni tra Covid, mascherine e Dad?
«Hanno perso molta socialità ma mi sembra anche che siano più capaci di discernere che cosa vogliono. La mia impressione è che siano cresciuti di 5 o 6 anni in un colpo solo. Quando quest’anno ho salutato i ragazzi di terza che hanno fatto l’intero percorso con il Covid ho avuto la sensazione di salutare dei 18enni. Quello che è buffo è che all’inizio del 2020 avevo mandato un messaggio in cui auguravo a tutti loro un anno difficile così vi rinforzerete. Tre mesi dopo mi dicevano che era colpa mia, che portavo male».
E la scuola ha imparato qualcosa in questi due anni?
«Poco. A settembre del 2020, quando siamo tornati in presenza dopo i lunghi mesi di lezioni a distanza con tanti ragazzi persi, le riunioni a scuola riguardavano la didattica, il regolamento scolastico. Una situazione surreale, nessuno si preoccupava di lenire le ferite degli studenti. Nella maggior parte dei casi tutto è demandato alla buona volontà di pochi insegnanti, non c’è un movimento di sistema. Abbiamo avuto un’apocalisse dal punto di vista della didattica e si ricomincerà molto vicini a quello che era prima. Ancora una volta gli studenti saranno andati avanti e noi saremo rimasti fermi».