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30 Novembre 2024
«Così ho vissuto nascosta da figlia segreta di Mitterrand. Soltanto al primo amoreconfessai chi era mio padre»
dal nostro corrispondente a ParigiStefano Montefiori
Mazarine M. Pingeot: «In casa nostra erano vietati gli ospiti, se il telefono squillava poteva essere Bush Volevo essere la sua preferita, glielo dicevo sempre»
Mazarine M. Pingeot dà appuntamento al Corriere al Café Français, un locale in place de la Bastille, nell’Est parigino dove vive. In questo caffè due editrici di Flammarion tempo fa le hanno proposto di raccontare in un libro un luogo che lei potesse chiamare «casa». Lei ha accettato e ha scelto di tornare per 24 ore nella parte opposta della città, a Ovest, nella residenza dell’«Alma» vicino alla Tour Eiffel: «La casa dove dai 9 ai 16 anni ho vissuto — nascosta — con mia madre Anne Pingeot e mio padre, François Mitterrand, il presidente della Repubblica francese».
Mazarine M. Pingeot, 49 anni, docente di filosofia e scrittrice, è stata la più celebre figlia segreta del mondo. Qualcuno a Parigi — all’Eliseo e tra i circoli del potere — sapeva della sua esistenza, ma il resto della Francia ignorava che il grande Mitterrand, per 14 lunghi anni primo presidente di sinistra della Quinta Repubblica (dal 1981 al 1995), sposato con Danielle Gouze e ufficialmente padre di Jean-Christophe e Gilbert, avesse una seconda famiglia, formata dalla curatrice del Museo d’Orsay, Anne Pingeot, e da una figlia bambina che all’uscita di scuola veniva accompagnata in auto da due gendarmi in borghese fino all’«Alma».
Vicino alla Tour Eiffel e ai suoi milioni di visitatori, in uno dei luoghi più in vista del Pianeta, per sette anni tre persone hanno vissuto, e si sono amate, al riparo dal mondo, in un appartamento di servizio messo a disposizione dallo Stato francese.
Com’è stato rivedere l’appartamento dell’adolescenza?
«Non lo avevo previsto, ma ho colto l’occasione del libro perché avevo qualche conto da regolare con quel posto. Non mi è mai piaciuto, l’ho spesso usato come pietra di paragone per scegliere l’opposto. Con mio padre e mia madre stavamo nascosti e protetti da un cancello sulla rive gauche, nell’Ovest di Parigi, e invece da anni vivo sulla rive droite, nel Marais, in un piano terra aperto a tutti».
Perché ha deciso di tornare adesso, oltre trent’anni dopo?
«L’idea dell’editore mi ha tolto il peso della responsabilità, non avevo mai osato farlo prima. Ho approfittato di condizioni ideali: chi ci abita oggi con gentilezza si è fatto da parte, la custode mi ha dato le chiavi, e per 24 ore ho potuto vivere lì e osservare quel luogo con la lente di ingrandimento, da scienziato in laboratorio, nel mio caso alla ricerca di ricordi».
Com’era questa casa?
«Un posto glaciale, dove certo non si attaccavano le calamite sul frigo. Tutti gli appartamenti di servizio sono un po’ così, ma nel nostro caso ancora di più perché non abbiamo mai fatto un vero trasloco, i miei genitori hanno mantenuto le loro case personali e noi siamo venuti qui prima per due giorni alla settimana, poi tre, poi quattro, alla fine sette, ma non abbiamo toccato nulla, non abbiamo cambiato i mobili o la tappezzeria che detestavo».
Perché vi siete stabiliti lì?
«Per ragioni di sicurezza. La casa di mia madre, in rue Jacob, era troppo piccola e difficile da proteggere per gli agenti della scorta. Così siamo andati nella residenza dell’Alma. Ma era come se avessimo sempre la valigia pronta per partire. Vivevamo lì, ma nessuno lo sapeva e nessuno lo doveva sapere. Era un appartamento nel senso di “tenere a parte, al riparo”».
Però è lì che ha preso forma la vostra famiglia, con i rituali e l’intimità. Nel libro racconta di papà, il capo di Stato François Mitterrand, che tiene le pillole sul comodino o si lava i denti, di sua madre che chiude la porta per fare la doccia, delle serate davanti alla tv.
«Ci sono due aspetti che si mescolano. Da un lato l’Alma era un luogo fuori dallo spazio, dalla geografia di Parigi, con una specie di extra-territorialità; dall’altro, una volta chiusa la porta, io e papà giocavamo a dama, guardavamo il telegiornale assieme. Una vita normale, anche se chiusa in sé stessa».
Non avevate mai ospiti?
«Mai, nessuno. Non era una casa dove una mia compagna di scuola potesse passare e suonare il citofono, per esempio. Quando mi hanno proposto di tornare per scrivere il libro non mi ricordavo neppure l’indirizzo, 11 quai Branly 75007, perché non lo davo mai a nessuno. Non ho mai ricevuto o scritto una lettera usando quell’indirizzo».
Il telefono squillava?
«Sì, ma era il primo ministro Michel Rocard, in piena notte, per annunciare a mio padre le dimissioni, o qualche leader mondiale che chiamava in orari strani per noi, per colpa del fuso. Non ho mai imparato il numero di telefono, non lo davo a nessuno. L’ho passato solo al mio primo ragazzo, l’unico al quale ho confidato chi io fossi veramente. A casa nostra chiamavano George Bush, e il mio primo amore».
Ha mai sentito il piacere di vivere in una nicchia protetta, voi tre contro il mondo?
«Sì, quando eravamo tutti e tre insieme. Ma quella sensazione spariva le volte in cui restavo da sola in casa. Allora la nicchia si svuotava, e un senso terribile di vuoto prendeva il sopravvento. In quei momenti è stata dura».
Sentiva il peso del paradosso? Figlia dell’uomo più potente di Francia, ma invisibile?
«Tutto è paradossale in questa storia. Ero una figlia illegittima del presidente e allo stesso tempo chiamata prima o poi a esserne l’erede. Invisibile e poi sotto gli occhi di tutti, quando mi hanno scoperta».
Suo padre con lei com’era?
«Molto tenero, anche se con un grande pudore. Era una generazione diversa, più trattenuta. Ai miei figli io l’amore l’ho dimostrato quasi mangiandomeli, su queste cose noi genitori oggi siamo più dimostrativi. A mio padre piaceva guardare le partite di calcio con noi, seduti sul nostro divano a righe bianche e rosse. Platini, Giresse, la nazionale o la squadra del Saint-Etienne… Si agitava, era capace di gridare nei momenti più concitati. Poi riprendeva la calma e allora mi spiegava le regole. Mia madre ogni tanto dava un’occhiata allo schermo ma non era interessata. Quel che le piaceva era che fossimo tutti e tre, uno accanto all’altro».
E lei da bambina com’era con suo padre?
«Volevo essere la preferita, cosa piuttosto curiosa visto che ero sola. La preferita non rispetto a fratelli che non conoscevo, ma rispetto a qualsiasi altro amore possibile, a un’altra persona, anche immaginaria. Gli chiedevo di continuo “chi preferisci?”, ma trasferendo la domanda su altro, come un tormentone: “chi preferisci tra questa attrice e quest’altra?”, “quale vestito?”, “preferisci la Borgogna o l’Auvergne?”. Volevo essere la preferita, e il nostro appartamento all’Alma doveva essere lo scrigno della migliore. Anche se fuori dell’Alma la “migliore” non era nessuno».
E lui si seccava o stava al gioco?
«Mi prendeva un po’ in giro. Aveva persino inventato un concorrente immaginario, che chiamava Mathurin e che nelle gare vinceva sempre, io arrivavo sempre seconda. Mio padre si divertiva molto».
Dal suo racconto Mitterrand sembra un padre attento e affettuoso. La sua è stata un’adolescenza unica ma piena di amore, e crescendo lei non si è perduta.
«È così. Ho vissuto in modo fuori dal comune, ma senza avere mai dubbi sul fatto che i miei genitori mi amassero molto. Credo che sia stato quello a tenermi salda e a farmi diventare un’adulta equilibrata, anche se non è stato facile e ci è voluto un po’ di tempo. E poi sono stata anche allevata con dei valori di lotta. Mia madre viene dall’Auvergne, una regione di montanari, gente dura. E mio padre a sua volta è un combattente, rimasto trent’anni all’opposizione prima di conquistare l’Eliseo. Quindi, mai piangersi addosso, andare avanti».
Una figlia fuori del matrimonio non è uno scenario così raro né socialmente inso stenibile, ormai. Il vostro segreto di famiglia è dipeso dall’epoca o dalle responsabilità di suo padre?
«C’erano tutti gli ingredienti per una soluzione di quel tipo. La personalità di mio padre, che era molto geloso della separazione tra vita pubblica e vita privata, e un’epoca che ancora la rendeva possibile. E poi il potere di mio padre faceva sì che tutti ci pensassero due volte prima di infastidirlo. Così il segreto ha retto a lungo».
Quella separazione tra pubblico e privato è caduta il 10 novembre 1994, quando «Paris Match» ha pubblicato in copertina la sua foto con il padre, all’uscita dal ristorante Divellec agli Invalides, e il titolo «Mitterrand e sua figlia, lo sconvolgente racconto di una doppia vita». Come ha vissuto quel momento?
«I fotografi sostenevano di avermi fatto un favore, come se mi avessero liberata dalla prigionia, come se fossero dei buoni samaritani. Ma fino ad allora tutta la mia vita si era costruita in funzione del segreto. E di colpo mi hanno levato tutte le fondamenta. Non avevo più niente per sorreggermi, perché all’improvviso sono diventata l’oggetto della curiosità del mondo. Ho dovuto abituarmi alla nuova situazione, ma ci è voluto tempo. Ho cercato di essere la persona più normale possibile».
Aveva fatto l’abitudine al segreto?
«Ero talmente abituata che per me era un riflesso istintivo. In auto nessuno me lo chiedeva ma quando arrivavamo all’Alma io mi abbassavo da sola tra i sedili, perché nessuno mi vedesse. In un certo senso dopo, quando si è saputo della mia esistenza, ho continuato a nascondermi, ma non per le stesse ragioni. Dopo quella foto ho dovuto imparare a sfuggire ai paparazzi, alla curiosità dei media».
Forse il momento di maggiore curiosità globale è stato quello dei funerali di suo padre, a Jarnac, l’11 gennaio 1996. Con quell’immagine passata alla storia, le due donne Danielle e Anne e le due famiglie riunite attorno al feretro. Come ha vissuto quegli istanti?
«Ho trovato fantastico e allo stesso tempo naturale che ci fossimo tutti, le due famiglie. Naturale, coerente con la vita di mio padre e delle persone che lo amavano, persone tolleranti che accettavano la situazione. Ero felice di essere con i miei fratelli, in quel momento».
Ed era consapevole della portata anche sociale di quell’evento, quando le famiglie allargate non erano così diffuse e accettate?
«Soprattutto dopo, certamente. Ma lì per lì… Mi rendevo conto di essere parte di un grande evento pubblico, importante anche per altre famiglie, probabilmente. Ma allo stesso tempo per me si trattava di una questione intima, e non da poco. Sapevo di essere osservata e scrutata dal mondo, ma soprattutto stavano seppellendo mio padre. Avevo 17 anni».
Nel 2016 Gallimard ha pubblicato le splendide lettere che suo padre ha scritto a sua madre, il grande amore della sua vita. Poi lei è andata a teatro ad assistere alla lettura. Che effetto le ha fatto?
«È stato un po’ strano. Bello perché si ha la conferma di essere il frutto di un grande amore. Ma quella loro magnifica storia mi ha messo anche un po’ di pressione addosso. Da adolescente speri di incontrare l’uomo della tua vita, sogni di vivere un amore straordinario e irripetibile, ma è stato già fatto. I miei genitori hanno messo l’asticella molto in alto».
Qualche anno fa lei ha cambiato nome, ha aggiunto finalmente quello di suo padre. E il libro è firmato Mazarine M. Pingeot. Come mai, dopo così tanto tempo?
«Non so neppure io precisamente il perché. Forse è un segno di accettazione di tutta la storia, un gesto di serenità. L’inscrivermi finalmente in una filiazione normale».
Ma il cognome per intero, Mitterrand, nel libro non l’ha messo. Solo l’iniziale.
«Mi sembrava un po’ ridondante. E poi mi hanno sempre chiamato Madame Pingeot, quando facevano l’appello a scuola dicevano “Pingeot”, ormai mi sono costruita così. Con l’iniziale ho scelto una presenza discreta».
Che cosa resta dell’eredità di suo padre?
«Mi sembra che quando si evoca François Mitterrand ci sia sempre una forma di rispetto, associato all’amore oppure all’odio. Prova che il suo ricordo è ancora molto vivo. Quando incontro i lettori alle presentazioni vengo spesso avvicinata da persone che con le lacrime agli occhi mi parlano della vittoria del 1981, la sinistra per la prima volta al potere, la speranza in un mondo finalmente pronto a cambiare».
E l’odio? Perché?
«Bizzarramente lo trovo soprattutto in certi ambienti di sinistra. Il solito problema della gauche che dovrebbe restare pura e all’opposizione, perché se va al governo viene poi accusata di sporcarsi le mani. Ma a parte questo, e a parte poche persone di destra che all’epoca fuggirono dalla Francia perché erano davvero convinte che per colpa di mio padre i carri armati sovietici sarebbero arrivati sugli Champs Èlysées, direi che di solito le persone mi manifestano un ricordo molto commosso».
Suo padre ha chiuso un’epoca? Era uno statista di un’altra stoffa?
«Aveva una statura diversa, nutrita di storia, cultura, letteratura, scienza. Ma non è colpa dei politici di oggi, mio padre apparteneva a una generazione che ha fatto la guerra, che ha assistito alla nascita dell’Europa… In fondo gli uomini politici sono l’espressione della società. E noi abbiamo quelli che ci meritiamo».