Cosa cambia nel mondo dell’arte?
20 Novembre 2022Vita agra di un anarchico in Italia
20 Novembre 2022di Jonathan Lethem
La foresta non era solo fitta di storie naturali, ma di fantasmi antropologici, vomeri arrugginiti e falci disseppellite insieme ai massi, vasi infranti con monete dell’era della Guerra civile e banconote marce. La macchia disastrosamente abbattuta per lasciare spazio al centro commerciale e al suo parcheggio non era foresta primaria, ma alberelli centenari, attraversati da muretti in pietra dimenticati e distrutti. Terre liberate in favore dei coltivi e poi abbandonate all’umido progetto di riconquista di erbacce e insetti. Qui la popolazione umana era sfuggita al controllo e ancora sotto i livelli del XVIII secolo; le lucciole potevano essere i fantasmi di città morte.
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Quando ho scritto di Gregory Crewdson per la prima volta, l’ho fatto partendo da alcune consapevolezze. Crewdson ed io avevamo una cosa in comune: entrambi eravamo stati bambini a Brooklyn negli anni Settanta e, per scoprire l’ambiente naturale, ma anche la cruda realtà e la banalità dell’identità (bianca) americana, avevamo dovuto uscire dal recinto della città. Questi vissuti erano dentro di noi e ci avevano plasmato, eppure restavano occultati dal caos elegantemente in rovina e dai contrasti di New York City dell’epoca. Fummo immersi in queste scoperte brutali e meravigliose nello stesso modo: viaggiando a bordo dell’auto di famiglia verso le cittadine e i boschi del New England, Connecticut, Vermont, Massachusetts, Maine. Crewdson scopriva questo nuovo mondo con un lampo di riconoscimento, che era anche l’occhio dell’osservatore costantemente alienato.
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Pareva destinato ad attraversare un confine, tra la cosiddetta civiltà e le sue scontentezze, i suoi malcontenti o, forse, solo i semplici contenuti della foresta. Ciò che da lontano poteva sembrare solo una sottile linea di confine, a uno sguardo più attento diventava una valle inquietante, un regno di mezzo fatto di oscurità e fango là dove terminava il prato. Tenne il naso a terra per scoprire i signori di questo regno: i vermi rosicchianti, il marciume e il terriccio, i viticci o le dita di funghi che esplodevano attraverso il tappeto erboso tagliato a spazzola. Come lui, erano privi di lingua, e scrivevano invece le proprie storie con la sintassi della luminescenza, del volo, dell’impollinazione, del sonno della crisalide, della fioritura e della putrefazione.
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Quando ho scritto di Gregory Crewdson, ho scritto della sua capacità di restare rapito dal primo giardino del disgusto di un bambino, dalla rimozione della placida patina di rassicurazioni quotidiane, oggetti di plastica e prati ben rasati, per rivelare le possibilità di morte e decomposizione nascoste al di sotto. Ed ecco un’altra consapevolezza: Crewdson, come me, aveva ereditato l’orrore per la repressione, per la negazione e la rimozione americane, per l’amnesia americana. Come me, era incoraggiato da costellazioni di stregoni capaci di mettere a nudo la negazione di ciò che si celava sotto la pelle di questa fantasia capitalista e imperialista. In Alfred Hitchcock, David Lynch, Rod Serling e David Cronenberg: nel cinema, ha trovato più precedenti della sua ricerca di quanti ce ne fossero nel mondo della fotografia da esposizione prima di lui. Insieme a colleghi come Cindy Sherman, Crewdson doveva usare l’artificio per mettere a nudo l’artificio e attivare il cervello sognante dello spettatore per far esplodere il sogno a occhi aperti collettivo.
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Escogitò quella che gli sembrava una specie di soluzione: stava costruendo un modello in scala ridotta della città all’interno di essa. Perché se questo mondo di prati, siepi e lotti era un labirinto in cui si era smarrito, la risposta poteva essere tratteggiarlo dall’alto, chinarsi sulla propria versione, un diorama o una boccia di vetro, e studiare le sagome della moglie del figlio mentre erravano nell’oblio. Ciò gli offriva un modo per essere simultaneamente all’interno della cittadina e sopra di essa.
L’arte delle miniature non era difficile da padroneggiare. E così divenne un gigante con le pinzette, pennelli di due o tre peli per imprimere granelli di sabbia e di sale o chicchi di riso, per depositare una dose di bicarbonato del peso di un colibrì nel vulcano in garage per farlo spumeggiare, per accendere vampate di capocchie di fiammifero sul lontano tratto d’autostrada al fine di guardare il minuscolo pompiere affrettarsi verso la zona sinistrata delle dimensioni di un francobollo.
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Le immagini di Crewdson sono un alternarsi tra un metodo che scava e crea tunnel sotto la pelle della terra, entrando nei seminterrati e nelle cantine della nostra apocalisse psichica nascosta e, al contrario, la capacità di elevarsi, come un uccello o una divinità, per osservare il mondo dal cielo con compassionevole distacco. Nelle fotografie di grande formato, diventa una sorta di collezionista o restauratore, testimone benevolo dell’angoscia degli esseri che tentano di andare avanti tra le rovine di un sogno di normalità. I suoi panorami portano il peso di una ricostruzione meticolosa di ciò che, in realtà, non sarebbe mai potuto esistere. Lo interpreto come una forma di desiderio generazionale.
Io e Crewdson siamo nati in un silenzio che era anche immobilità. Il coperchio era stato premuto con tale forza che, per i figli della reazione conservatrice dell’epoca di Ronald Reagan, qualsiasi speranza trasformativa o comunitaria nella vita americana sembrava del tutto postuma. Non ci restava che il parco giochi: uno sciocco sogno di libertà individuale di consumare merci, schiacciati in quella che si era rivelata una macchina da guerra imperiale.
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Quando svoltò nella sua via c’era luce nel cielo, ma la notte aderiva ancora a tutte le superfici delle case e dei prati come uno strato di neve. Fu costretto a parcheggiare in strada perché una roulotte Airstream occupava il suo vialetto. Niente che non potesse risolvere al mattino. Da una finestra ovale sul retro della roulotte apparve la testa di una donna avvolta da un alone fluorescente, le spalle nude. Lo guardò senza ostilità, solo curiosità, e lui fece del suo meglio per ricambiare il suo gesto-non-gesto con lo stesso spirito. Si accorse che aveva ancora molto da imparare su questa città.
All’improvviso, sentì l’urgente bisogno di rientrare in casa. Cominciò a correre, inciampò, e di colpo si ritrovò al contempo oggetto e osservatore. Un penoso disagio si impadronì dell’oggetto; l’osservatore sorrise senza fare alcun commento. Non aveva mai sperimentato un simile silenzio interiore. Era sempre presente, coperto dalle azioni dei vivi? Non si ricongiunse a sé stesso che quando arrivò in cucina.
Gli utensili erano tutti al loro posto, lì dove li aveva lasciati, il bollitore del caffè ancora abbastanza tiepido da spingerlo a riempirsi una tazza. Il suo piatto era nel lavandino, ma nessuno aveva aperto l’acqua del rubinetto. Le uova avevano ancora un discreto profumino.
Un ritorno alla sostanza del mondo è quasi irrevocabilmente un’esperienza politica.
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Il lavoro svolto negli anni Novanta dagli artisti della mia generazione, e di quella di Crewdson, faticava a emergere in questa atmosfera postuma di isolamento dalla storia e dalla comunità. Forse, tutto ciò che restava era l’orizzonte misterioso e tetro della vita della famiglia, della vita intrappolata nella sfera domestica. La forza dell’attenzione di Crewdson per questo orizzonte intimo, tuttavia, contiene un seme costante di implicazione politica, lo stesso scoperto dai surrealisti. Si chiama «defamiliarizzazione». La superficie della vita quotidiana viene spinta fino a rivelare il suo potenziale di essere diversa, aliena, altro da sé. All’interno di questa descrizione c’è il riconoscimento di ciò che potrebbe trasformare la morte in vita, e la pelle dura del quotidiano in abbondanza e rinnovamento. Attraverso lo sguardo di Crewdson, rischiamo una gloriosa ammissione di ignoranza della materia essenziale delle nostre stesse vite. E restiamo stupefatti di fronte alla promessa di colmarla in un secondo incontro.
(traduzione di Simona Caldera)