CASALBORDINO (CHIETI) — La santabarbara è esplosa ancora, in una mattina dall’umidità tropicale. Ha fatto tre morti, ieri quando erano le 10,20. Come il 21 dicembre 2020, tre vittime anche allora. Un’esplosione, una sola, senza fumo a seguire. Si è sentita nella spiaggia dell’Adriatico duemila metri in linea d’aria e nella frazione di Pollutri, dieci chilometri lontano. Era già deflagrato, questo enorme recinto di trattamento della polvere da sparo che è la Sabino Esplodenti, nel 2009. Due feriti. L’innesco di una spoletta aveva ucciso, questo nel 1992, un operaio di 50 anni. E negli anni ’70, ricordano in paese, era morto, addirittura, un ufficiale della Nato. «Non so se vale la pena tenere sul territorio una fabbrica così pericolosa per dare da mangiare a settanta famiglie», scuote la testa il sindaco di Casalbordino, Filippo Marinucci.
La santabarbara è sempre protetta, praticamente inaccessibile. Figuriamoci adesso. Trentatré ettari di faggete e canne di bambù all’interno dei quali si smontano e si rendono inerti, tra i merli che fischiano, missili da carro e bombe a grappolo. Non è ancora arrivato, qui, su mezzi militari e scortato da due pattuglie, il materiale bellico dell’incombente guerra ucraina. La Sabino Esplodenti, fondata nel 1973 da Salvatore Sabino sulla scia di una fabbrica per fuochi d’artificio e oggi amministratadal nipote Salvatore, tutti della vicina Lanciano, è diventata un riferimento per l’intera Europa dell’Est a partire dalla dissoluzione delle Repubbliche dell’Unione sovietica, siamo nel 1991. Quindi, è diventata una spa da fatturati forti con la guerra in Jugoslavia, a cavallo tra i due secoli.
Il prezzo per questa enclave abruzzese costruita per la smilitarizzazione del mondo armato, stavolta, l’hanno pagato tre operai che, nonostante i corsi interni e la pericolosità insita nel mestiere, non superavano i 1.500 euro netti al mese di stipendio. Giulio Romano aveva 56 anni e viveva nel centro storico di quest’altro bel paese dell’Appennino centrale. Ora che è sera, nella sua casa a pianterreno un medico tiene sotto controllo il cuore della madre, disperata. Giulio aveva chiuso una gioielleria diversi anni fa, troppe incognite e oscillazioni del mercato. E già adulto, molto adulto, era entrato nella santabarbara. Addetto alle polveri, uno dei tanti. «Lavorava per i soldi, come tutti», spiega il fratello Luca, geometra. La Sabino Esplodenti dà lavoro, indubbio. In una fetta di terra che, dedicata alla produzione del vino, ancora oggi produce aliquote di disoccupazione. In fabbrica si entra con il passaparola e spesso un parente tira dentro l’altro: «Vieni, qui assumono».
Gianluca De Santis, 40 anni, sposato, due bambini piccoli, ogni alba caricava il fratello Gabriele e il cognato nella piazza di Palata, la provincia di Campobasso, e macinava ottanta chilometri in auto per lavorare sulla collina della santabarbara. Gianluca aveva preso un giorno di riposo per accompagnare, sarebbe stato oggi, il più piccolo, tre anni, al nido. Con la moglie Barbara aveva appena comprato casa. «Voleva restare in Molise», dice la sindaca di Palata, Maria Di Lena, «faceva il pendolare, ma non voleva lasciarla. Ci sono persone che ogni mattina non vanno al lavoro, vanno al patibolo».
La terza vittima è di Lanciano, stessa provincia Chieti. Fernando Di Nella, 61 anni. Moglie, due figlie. Era vicino alla pensione.
«Si stava realizzando la normale fase di munizionamento», scrive l’azienda, «lavoravamo per conto dell’Agenzia industrie difesa». Scrive ancora: «Avevamo adottato le precauzioni più severe, resta al momento inspiegabile la causa dell’innesco che ha causato la perdita di tre lavoratori esperti, formati e informati dei rischi». La società, si legge, si farà carico di ogni esigenza delle famiglie. Dice, invece, il padre di un lavoratore della Sabino Esplodenti, anche lui addetto alle polveri: «I turni sono di otto ore, ma l’azienda forzava, li portava a dieci, dodici». Dice il fratello di Giulio Romano, che con lui divideva una folk band: «Quella fabbrica è pericolosa e stavolta andremo a fondo». Dice, infine, il sindaco Marinucci: «L’azienda, per legge, ha molte possibilità di non farti vedere i luoghi di lavoro. Non sappiamo ancora cos’è successo tre anni fa, sugli eventi dell’oggi brancoliamo nel buio». L’ultima esplosione probabilmente è avvenuta in un’area all’aperto.
Questa mattina, al Tribunale di Vasto, si tiene la prima udienza dell’incidente del 21 dicembre 2020.