l ’ i n s t a l l a z i o n e
di Olga Gambari
Entrare al Museo Fortuny significa accedere alla meraviglia. Un museo unico al mondo, dove andare e tornare ogni volta che si è a Venezia, perché pochi luoghi incarnano così l’anima veneziana, il suo essere mosaico di geografie, mondi e culture. Lo fa raccontando la vita e l’eredità del suo ultimo proprietario, l’eclettico e geniale Mariano Fortuny y Madrazo, nato a Granada nel 1871 e vissuto a Venezia dal 1889 fino alla sua morte nel 1949, insieme alla moglie Henriette Nigrin. Coppia incredibile, che rese Palazzo Pesaro degli Orfei un ritrovo per gli intellettuali europei e una fucina di produzioni artistiche e artigianali. Qui nacquero i meravigliosi tessuti per abiti e arredamenti, ancora famosi in tutto il mondo, sinonimo di preziose e raffinate creazioni dove si mescolano suggestioni rinascimentali, arabe e dell’antichità. E qui videro la luce scenografie e progetti rivoluzionari di illuminotecnica per il teatro.
Mariano era anche pittore e fotografo, inventore di lampade elettriche, secondo un’idea di opera totale dove non c’erano gerarchie tra le arti, ispirata dal suo grande amore per Wagner. I lunghi rifacimenti, realizzati dopo la devastazione causata al palazzo dall’acqua alta nel 2019, hanno permesso un riallestimento completo che restituisce quella che era la casa, l’atelier, la biblioteca, il laboratorio, il salotto. Con emozione si entra a casa Fortuny, tra esposizioni di tessuti e bozzetti, archivi fotografici, documenti, brevetti e poi i dipinti di Mariano e le opere della sua collezione. Il portego al piano terra accoglie le mostre temporanee, come quella dell’artista francese Eva Jospin (fino al 24 novembre), che l’ha trasformato in una selva. Una Selva(titolo anche della mostra, a cura di Chiara Squarcina e Pier Paolo Pancotto) di legno e cartone alveolato, fibre vegetali, tessuto e metallo concepita come una grandiosa installazione plastica di ambienti, in un’interpretazione contemporanea di quel concetto di wunderkammer che è l’essenza di Fortuny. E nelle selve ci si può, e ci si deve perdere. Lasciatevi alle spalle ogni criterio di realtà e abbandonatevi all’immaginazione e alla mirabilia. Il progetto è un’architettura complessa che si ispira alle scenotecniche barocche e ai giardini rococò, dove rocce e conchiglie creavano favolose grotte.
Da uno squarcio di foresta, che si apre improvviso e imponente, inquieto, si accede a una galleria con soffitto a lacunari, al cui interno si susseguono nicchie con vedute su diorami e maquette. Al fondo si incontra una serliana, elemento architettonico tipico dello stile veneziano sei-settecentesco, che conduce in un altro ambiente attraverso la sua imponente apertura centrale ad arco, mentre ai lati, due aperture trabeate fanno da cornice a delicate trame di ricami che si sovrappongono suggerendo visioni.
Nel nuovo spazio, si scoprono arazzi che sembrano pitture e si schiudono come quinte. Nell’andare lungo il corpo selvatico di Jospin, si viene trasportati in un mondo magico e misterioso, dove la regola, come per Fortuny, è la commistione tra le arti, un fluire dal disegno all’incisione, al ricamo e alla scenografia, una libera sperimentazione che mescola immaginari e virtuosismi di materia e poesia. Un’opera immersiva e piena di dettagli che gioca con la percezione del pubblico, nata da materiali poveri, che plasma una dimensione immaginifica dove tutto ciò che appare è sospeso tra natura e artificio, realtà e memoria, sogno. L’elemento naturale è protagonista, il paesaggio nelle sue interpretazioni idealizzate nella storia dell’arte, dai capricci e le rovine nate con il Rinascimento e sviluppate poi nel barocco, al sublime romantico fino al panismo decadentista e al modernismo. Un intreccio di rami e radici, fiori, rocce, gemme e forme ibride sboccia dappertutto, germinazione preziosa racchiusa dentro a un’unica scenografia avvolgente, che stimola la percezione, spesso ingannevole, e lo stupore. Il disegno che si fa intaglio, rilievo, che prende corpo nel tessuto e nel ricamo, nella stampa su stoffa, e nella scultura, per poi uscire dalla cornice e conquistare lo spazio, modificarlo facendosi rappresentazione teatrale, con giochi di luci e ombre. Al fondo del portengo, le immagini prendono vita in un’opera ispirata a uno strumento delle meraviglie ideato dal pariginoLouis Carrogis de Carmontelle a fine Settecento. Un rotolo di carta teso tra due strutture cilindriche scorre azionato da una manovella a mano, animando paesaggi incisi su tela, in un carousel di vedute. Arrivati al termine del viaggio, due video, Forêt e Carmontelle, creano ambienti stranianti, proiettano foreste che si muovono, evocando grovigli che risuonano nell’intimità dello spettatore. E sembrano germogliare verso l’alto, verso quella selva di meraviglia che Fortuny seppe creare.