Marilyn Monroe, Marlene Dietrich, Joan Crawford. Sono solo alcune protagoniste dei suoi scatti. Ma lei non ha fotografato solo dive A Torino, le opere della prima donna entrata nell’agenzia Magnum
diMichele Smargiassi
Che cosa hanno in comune le gambe di Marlene Dietrich e le mani di una raccoglitrice nera di patate di Long Island? Lo sguardo di una donna, Eve Arnold. Nome edenico, carattere di acciaio dolce, quasi un secolo dietro alla macchina fotografica (morì nel 2012, tre mesi prima di compiere cent’anni), oltre 750 mila volte clic sul pulsante delle sue Rollei e Leica. La battuta su Dietrich e le patate gliela disse Robert Capa quando nel 1951 la arruolò, assieme a Inge Morath, come prime donne a rompere il misogino androceo di Magnum, la tavola rotonda dei grandi fotoreporter. Era un omaggio alla sua incredibile versatilità. Lei rispose, soave e modesta: «Se offri qualcosa di te, la gente ricambia». Come se il suo talento fenomenale per l’umanità dell’attimo, che fino al 4 giugno si dispiega ai visitatori della sua ricca retrospettiva a Camera Torino, fosse solo il frutto di una specie di scambio alla pari con il mondo.
Dopo tutto, con la fotografia è sempre così. Ma per Eve, di più. A ben vedere, del mondo fotografò per tutta la vita quello che aveva a che fare con la sua propria vita. Diceva: «Ho fotografato la povertà perché sono nata povera, le donne perché sono una donna, la politica perché vivo nel mondo». Da un certo punto di vista, non fu lei a diventare fotografa, ma la fotografia ad andarla a cercare. Nata Eve Cohen a Philadelphia, figlia di un rabbino di idee socialiste emigrato dall’Ucraina, il suo destino le si presentò sotto forma di una fotocamera Rolleicord da 40 dollari, regalo di un amico. La sua carriera iniziò così, con leggerezza, anzi «con una bugia », tiene a dire con visibile adorazione la curatrice della mostra Monica Poggi. Si iscrisse come “fotografa” ai corsi tenuti da un mostro sacro dell’immagine, Alexey Brodovitch, art director di Harper’s Bazaar: in realtà aveva trovato semplicemente lavoro come operaia in un laboratorio di sviluppo e stampa nel New Jersey. Se ne accorsero subito i compagni di scuola, che le demolirono i primi balbuzienti scatti da fotoamatrice: «mi scorticarono viva». Ma lei, per orgoglio, reagì, e come saggio finale (il compito era: un servizio di moda) presentò un fantastico racconto su un mondo sconosciuto ai bianchi, quello delle sfilate di moda per soli neri nei peggiori bar di Harlem (e anche in una chiesa sconsacrata), tra modelle afro, camerini squallidi e pubblico rumoreggiante. Il prof rimase di stucco. Nessun magazine americano osò pubblicare quel servizio: lo fece invece il britannico Picture Post,che gli diede la copertina. Fu anche per questo che, dopo dieci anni di fulminante carriera, Arnold andò a vivere e a lavorare a Londra. Era già famosa e ricercata. Non si fermava di fronte a nulla e a nessuno. Da un comizio di Malcom X tornò «con un vestito a pois»: erano bruciature di sigarette, non era piaciuta molto quella donna ebrea bianca ai Black Muslim arrabbiati. Il leader dei nazisti americani George Lincoln Rockwell invece le disse a brutto muso: «Con te, ci farei una bella saponetta». Lei rispose impassibile: «Perché non un paralume? ». Il mondo secondo Eve è così: va guardato in faccia, altrimenti non lo fotografi mai. Le donne, ad esempio. Se c’è una fotografa che le ha amate, è quella soave ragazza precocemente canuta. Ma non tutte le donne le piacevano. Con Bruce Chatwinincontrò Indira Gandhi per ilSunday Times: non ne fu entusiasta. Con Joan Crawford fu quasi un dramma: la diva già sul viale del tramonto le si parò davanti nuda e ubriaca; tornata sobria, implorò la fotografa di non pubblicare quelle immagini, e lei non lo fece mai. Diventarono amiche. La grande hollywoodiana accettò perfino di farsi riprendere, in impietosi primissimi piani, mentre cercava in ore di seduta di trucco di rimediare col make-up agli insulti dell’età. Poi la Dietrich, appunto: tentava il rilancio come cantante, e quella notte nello studio di registrazione Eve puntò tutto sulle sue gambe ancora splendide nonostante i cinquanta compleanni abbondanti. Marilyn Monroe, ancora all’inizio della carriera, vide quelle fotografie e con un pizzico di competitiva civettuola invidia chiamò Arnold: «Se hai fatto così bene con Marlene, cosa potrai fare con me?». I ritratti che Eve fece a Marilyn in anni di intensa amicizia (corse al suo capezzale quando la salvarono da uno dei suoi, diciamo, eccessi di medicinali) sono i più affascinanti della carriera dell’attrice: davanti all’obiettivo di Eve, il sogno degli americani maschi deponeva il glamour, tornava ragazzina, lasciava vedere i piedi gonfi per le scarpe col tacco a spillo, fingeva di leggere l’Ulissedi Joyce in costume da bagno, insomma si regalava completamente. Sul set diThe Misfits, ultimo travagliato film, in un solo scatto Eve la sorprende deliziosa, ridente, in giubbotto di jeans, quasi una bambina. Chi conduceva il gioco? Eve aveva ben capito che Marilyn era «una grande manipolatrice », che fingendo candore dominava la lente: «Era un vero genio della fotografia». Come lei, anche Malcom X: che, ricordava Eve, non si lasciò mai sorprendere da un ritratto con la guardia abbassata.
Lei che non volle mai definirsi “donna fotografa”, ma solo fotografa, cercò donne famose, donne sconosciute, donne volitive: i suoi ritratti di nere americane stile black is beautifulfece scalpore, il suo reportage “dietro il velo” fra le donne islamiche degli harem afghani ed egiziani (nel 1969) ci appare oggi profetico. Eppure, dopo tutto, Arnold fotografò sempre sé stessa. Ogni sua immagine ha un negativo nascosto nella sua anima. Col pensiero a un figlio morto in fasce documentò i primi stressanti cinque minuti di vita di un neonato: «Appena nasci ti etichettano, ti sculacciano, ti misurano, ti fasciano… ». Dietro la soavità e la «grazia assoluta » (disse di lei Elliott Erwitt) c’era una malinconia quasi epocale. I rissosi colleghi maschi di Magnum adoravano quella «vecchia nonna ebrea», l’unica capace di metterli d’accordo. Non aveva la pretesa di raddrizzare il mondo, che sapeva storto: ma era decisa a non nasconderlo. Dietrich le chiedeva di cancellarle rughe e assottigliarle le caviglie: non lo fece mai. Lo disse lei stessa di sé, nel titolo della sua autobiografia: Eve Arnold è stata una donna senza ritocco.