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17 Dicembre 2023di Aldo Colonnetti
Le idee forti di un progetto nascono dall’analisi della complessità di un territorio a cui corrisponde un Paese. Ed è quanto bisogna fare quando si è chiamati a rappresentare, in un appuntamento internazionale come l’Expo di Osaka 2025, il sistema Italia. Mario Cucinella e il suo studio, dopo essere stati protagonisti di uno dei migliori padiglioni italiani alla Biennale di Architettura di Venezia 2018, dedicato al tema Arcipelago Italia, non poteva sbagliare, rispondendo al tema generale — cioè «progettare la società futura per le nostre vite» — quand’è stato chiamato a disegnare il padiglione italiano. Che, peraltro, per la prima volta ospiterà, nella sua piena autonomia, anche quello del Vaticano.
Nel 2025 saremo a soli 5 anni di distanza dal 2030, l’anno che le Nazioni Unite hanno indicato per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg). È il commissario generale per l’Italia a Osaka, il diplomatico Mario Vattani ad avere guidato il gruppo governativo che ha indicato l’architetto Cucinella come l’autore del progetto. La scelta del comitato mette al centro il concetto della città italiana rinascimentale come modello di relazioni sociali, economiche e culturali. Come precisa lo stesso commissario, «il padiglione sarà un avamposto del Sistema Italia in una delle aree più ricche dell’Asia. Il progetto di Cucinella riflette l’identità italiana in una chiave contemporanea ed esprime i valori alla base della nostra cultura: un’idea dello spazio profondamente radicata nella nostra tradizione di piazza, teatro e giardino e una cultura del fare, fondata su interazioni reali tra le persone».
Alla base del linguaggio digitale sta la cultura analogica: questa potrebbe essere l’idea da cui tutto il progetto si è sviluppato. Il padiglione italiano, ospitato nel distretto Saving life, avrà una superficie di 3.626 metri quadrati, di cui 2.538 edificabili. L’investimento complessivo è di 24 milioni di euro. Una sorta di palcoscenico in cui non si mostrerà soltanto la cultura del nostro Paese ma un progetto in grado di mettere in campo inedite relazioni per comporre insieme un nuovo rapporto «tra natura e artificio», al centro del quale protagonista è l’uomo, come trasformatore e innovatore. Certamente sullo sfondo c’è lo straordinario dipinto della Città ideale, una piccola tavola, ospitata nella Galleria nazionale delle Marche nel Palazzo ducale di Urbino: non a caso questa tempera, che guarda al modello urbanistico rinascimentale, non ha un autore certo ma tanti sono gli ispiratori, da Leon Battista Alberti a Piero della Francesca, da Luciano Laurana a Francesco di Giorgio Martini. È come se si trattasse dell’opera di una bottega speciale e unica, nella quale lavorano e coesistono saperi, idee, competenze diverse che portano a un risultato d’autore, senza una paternità precisa, comunque riconducibile a una visione del mondo che è soprattutto «italiana», nel suo significato più alto, non solo di nazione, ma di identità e di equilibrio tra «fare e pensare».
Anche lo studio di un grande architetto è una bottega, Nel caso di Cucinella, Bologna e Milano sono le città dove lavorano circa 120 architetti per decine di progetti in tutto il mondo (l’ultimo in ordine di tempo s’inaugurerà nei prossimi mesi a Milano: il nuovo quartier generale del Gruppo Unipol nella zona di Porta Nuova, una torre di forma ellittica). La vocazione internazionale dello studio è anche alimentata dagli studenti che provengono da ogni angolo del pianeta, più di 20 l’anno, per frequentare la scuola di specializzazione Sos (School of Sustainability), fondata dallo stesso Cucinella 10 anni fa, ora con la sede presso lo studio di Milano. Tutto questo a dimostrazione che l’architettura, come la città ideale, non è un’idea astratta: corrisponde anche al modo in cui si lavora e si progetta. Un pensiero aperto, attento alle soluzioni pratiche, senza dimenticare che la ricerca è sempre in movimento e non si può fermare, se si vuole intercettare un futuro concreto e non solo la sua ideologia.
Si potrebbe dire che il padiglione italiano di Osaka rappresenti non solo un’opera destinata a vivere il tempo di un’Expo, ma un manifesto concreto di un’Italia che guarda avanti, non dimenticando le sue radici rinascimentali?
«È un viaggio che parte da una piazza sulla quale si affaccia un edificio di legno che fa intravvedere una storia antica, la cui rappresentazione più nota è la famosa tavola di Urbino e, nello stesso tempo, mette in scena tanti piccoli teatri di vita, disseminati in tutto il nostro Paese. Non solo i grandi centri ma le piccole province, da Nord e Sud, le nostre comunità. Credo che il sottotitolo di Expo 2025, “l’arte rigenera la vita”, non possa trovare rappresentazione migliore che viaggiare lentamente in tutte le regioni italiane e scoprire che l’identità culturale e manifatturiera è fondata sul particolare che sta alla base della nostra identità generale».
Perché una piazza e non un’opera d’arte, frutto di un genio irripetibile?
«L’architettura è arte e scienza insieme. È necessaria l’intuizione fulminante di un’idea: in genere mi capita così quando faccio i primi schizzi di un progetto. Il più delle volte non in studio ma in viaggio, osservando il mondo normale che ho intorno, come nel caso del progetto di Osaka. Ma in seguito è necessario alimentare l’idea iniziale con tutte le competenze che rendono possibile il passaggio da un concetto alla sua realizzazione pratica, che dev’essere d’immediata comprensione ma nello stesso tempo “immaginifica”. Che cos’è la piazza italiana su cui si affacciano tutte le nostre storie, passate e future, se non una grande bottega all’aperto? Da lì sono partito, invitando, durante tutte le diverse fasi del progetto, competenze, persone, saperi artigianali e specializzazioni scientifiche e tecnologiche. Come scriveva il fondatore del Bauhaus, Walter Gropius, “gli specialisti sono persone che ripetono sempre gli stessi errori”. Il fatto che la stessa tavola di Urbino non abbia un autore certo, perché tante sono le teste che l’hanno pensata anche se ci sarà stata la mano di un singolo pittore, spiega perfettamente, secondo me, l’origine di questo progetto».
L’Italia rappresentata nel progetto ha le radici nel Rinascimento ma vuole parlare il linguaggio della cultura contemporanea, guardando al futuro, che è poi la ragione fondante di tutte le Expo. Basti pensare a quella di Milano del 2015, dedicata al cibo («Nutrire il pianeta, energia per la vita»).
«L’Italia è stata una fabbrica di città ideali in tutti i suoi secoli di storia: pensiamo a Sabaudia, Gibellina, Zingonia, Palmanova, Sabbioneta, alla città operaia di Martella a Matera, anche all’Eur di Roma… sono solo alcuni esempi. Oggi tutti direbbero, soprattutto, una città sostenibile: piena di alberi, di orti, di natura. Sono d’accordo ma credo che senza la possibilità di vivere in questa realtà, la città ideale non esiste. E la possibilità di viverla va data a tutti. Riempire di verde i centri e poi renderli economicamente inaccessibili non rappresenta la strada giusta. Non ho la ricetta perfetta, nessuno ce l’ha, ma al cuore del nostro lavoro ci sarà il concetto di accessibilità, di sostenibilità sociale, una città dove al centro ci siano le persone e non l’economia. Anche la dimensione estetica di questo progetto deve avere un’immediata riconoscibilità, senza mediazioni intellettualistiche e accademiche. La bellezza non ha bisogno solo di conoscenza: è un sentimento diffuso che ciascuno delle migliaia di visitatori saprà cogliere. Entro nel padiglione italiano e, quando valico la piazza e la nostra architettura, comprendo immediatamente dove sono. Proprio come accade a me quando, senza conoscere la lingua del Paese che ci ospita, il Giappone, da un piccolo giardino zen intuisco immediatamente dove mi trovo, non solo fisicamente ma spiritualmente. Vorrei che fosse questa la reazione di un visitatore: intuire dove sono, subito, mettendo in azione tutti i nostri cinque sensi. Perché il nostro progetto sarà, anche per questa ragione, sinestetico, sollecitandoci a usare al meglio tutti i nostri “sensori”».
«Fare è pensare», ovvero una sorta di rilancio per un nuovo e rinnovato Bauhaus: al centro una rinnovata declinazione tra la cultura artigianale e il sistema industriale. Potrebbe essere questo lo slogan del progetto?
«Al centro, anche nella stessa fase realizzativa e non solo ideativa e progettuale, protagonista sarà il concetto di “pensare con le mani”. Quindi l’artigianato, la qualità del saper fare, dalla moda alla manifattura, dalle ceramiche all’oreficeria. Se l’arte rigenera la vita, presentare al meglio cosa sappiamo fare e produrre nel nostro territorio è fondamentale: l’Italia è un grande fabbrica diffusa, dalla Brianza del legno, ma non solo, alla ceramica di Caltagirone ma anche di Sassuolo, il distretto più importante al mondo in questo settore. Ma anche il sistema industriale e artigianale della moda del Piemonte e dell’Emilia-Romagna, la motor valley di Modena e Maranello, ma anche la lava dell’Etna che si trasforma in un oggetto, unico, perfetto, duro e magico nei suoi effetti cromatici. Per questa ragione l’architettura del padiglione italiano ha la forma di un teatro: vogliamo raccontare un modo di vivere sfaccettato, ma percepibile dovunque, in tutte le grandi e piccole piazze del nostro Paese. A cominciare dal suono delle nostre parole che è il risultato di sovrapposizioni culturali e gestuali di diversa provenienza. La nostra è una mente mediterranea, aperta e nello stesso tempo espressione di un’esperienza originale e non ripetibile altrove. Per questa ragione penso che il teatro sia la forma architettonica in grado di rappresentarci al meglio, insieme alla piazza».
La sostenibilità è un concetto fondamentale della sua pratica e teoria progettuale. Come sarà presente a Osaka? E quale ruolo giocherà in quest’opera?
«Il progetto sarà un kit montabile e smontabile di legno. Ogni elemento potrà essere riutilizzato. Non riciclato: proprio riutilizzato, per riproporre la stessa costruzione o altre, dal momento che sarà una sorta di grande Lego. I partner sono locali e lo saranno anche i materiali. L’idea e i modelli culturali sono espressione del Dna del nostro Paese: costruire l’unità nella diversità delle nostre radici culturali. Un esempio, il cibo: dalla bagna cauda piemontese alla pasta di mandorle siciliana. Siamo sempre noi. La piazza e la forma del teatro ci rappresentano al meglio, insieme al giardino all’italiana, ospitato sulla copertura del padiglione».
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