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30 Aprile 2024L’analisi
di Federico Fubini
Nel mirino anche quelle locali, più esposte le straniere
Anche lontano dal fronte, nei salotti un po’ kitch delle élite di Mosca, la guerra di Vladimir Putin sta portando profonde novità: ha innescato il più grande saccheggio di risorse dai tempi delle privatizzazioni degli anni ‘90. Quel che restava del diritto di proprietà in Russia è andato in pezzi sotto i colpi di due anni di conflitto. Qualunque impresa, di ogni tipo di azionista russo o estero, è soggetta a essere nazionalizzata con un tratto di penna o con una sentenza apparentemente incomprensibile di un tribunale. A quel punto è solo questione di tempo: presto qualche vecchio o nuovo oligarca, purché sia utile al Cremlino, ne prenderà possesso a un prezzo simbolico.
Così la guerra distrugge vite in Ucraina, ma arricchisce favolosamente gli uomini di mezza età che giostrano in permanenza per conquistare i favori di Putin. Basta convincere chi controlla le leve dello Stato a espropriare, nazionalizzare e poi svendere. In questi giorni è toccato alle controllate russe dell’italiana Ariston e della tedesca Bosch, ma nell’ultimo anno e mezzo hanno sperimentato la stessa sorte decine di altre imprese occidentali e centinaia di imprese locali. La finlandese Fortum e la sua controllata tedesca — ricavi in Russia per due miliardi di euro nel 2021 — sono finite gratis sotto il controllo di Rosneft: ma questo è il gruppo in mano a Igor Sechin, ex uomo del Kgb da sempre vicino a Putin. E anche se si è fedeli al presidente o al suo partito basta cadere lievemente in disgrazia, basta farsi sfuggire una frase sbagliata o anche solo trovarsi all’estero, per vedersi togliere tutto. L’ex governatore regionale di Chelyabinsk Mikhail Yurevich è fuggito all’estero ad alcune accuse di corruzione e in pochi giorni gli hanno sfilato il Makfa Group, il più grande produttore di pasta del Paese. All’oligarca Oleg Tinkov è bastato pronunciare una succinta critica all’«operazione militare speciale» in Ucraina per trovarsi costretto a svendere la propria banca. Dice Alexandra Prokopenko, ex consigliera della Banca di Russia e oggi studiosa del Carnegie Russia Eurasia Center di Berlino: «Spesso dietro il sequestro di un’impresa c’è semplicemente qualche oligarca che vuole mettere le mani su quelle risorse, nient’altro».
Se può accedere ai russi, figurarsi ai gruppi occidentali ai quali di fatto è stato reso difficilissimo andarsene. Sono praticamente in ostaggio. Per uscire dovrebbero vendere a metà del valore e versare una tassa pari, per decreto, al 25% del giro d’affari dell’ultimo anno. Per le banche poi è letteralmente impossibile: Intesa Sanpaolo ha provato due volte a vendere le sue attività russe, prima a Gazprombank e poi ai manager locali, ma si è scontrata con il veto del Cremlino. Con i grandi istituti russi sotto sanzioni, Putin esige che quelli europei restino sul mercato. Chi poi in altri settori è fuggito, lo ha fatto a caro prezzo. Arsen Kanokov, ex capo della Repubblica caucasica della Cabardino-Balcaria, si è impossessato di 850 ristoranti McDonald a zero rubli. Due oscuri proprietari di autosaloni, Alexander Varshavsky e Kamo Avagumyan, hanno comprato per una decina di milioni di euro le fabbriche della Volkswagen e della sud-coreana Hyunday, che da sole coprivano un terzo della produzione di vetture in tutta la Russia.
Certo, i calcoli politici non sono mai estranei. Putin vuole mostrare che anche la Russia può imporre sanzioni, ben oltre il blocco dei flussi di gas. La confisca di Fortum e Uniper è arrivata dopo una sentenza di un tribunale di Lipsia che di fatto mette sotto tutela le attività tedesche di Rosneft. E poi ci sono sempre i fedelissimi da premiare: la controllata di Danone, sotto esproprio, è finita a uno stretto alleato dell’uomo forte della Cecenia Ramzan Kadyrov. Perché in fondo il sistema di potere in Russia è così: metà politica estera e metà lotta fra bande; metà ideologia imperiale, metà mentalità mafiosa secondo la quale solo i più determinati e affidabili sopravvivono e saranno premiati. Ora Ariston finirà nelle mani di un uomo così. E non sarà l’ultimo sequestro: solo un altro blocco di macerie su una società civile che, dopo Putin, sarà durissimo ricostruire.