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27 Settembre 2022Il fascismo dopo il fascismo. Il campo di studio preferito dallo storico argentino Federico Finchelstein (Buenos Aires, 1975), docente alla New School for Social Research e all’Eugene Lang College di New York è lo snodo tra le culture politiche di estrema destra che hanno alimentato le dittature del Novecento e il loro riemergere in diverse forme all’interno e contro la democrazia nel corso degli ultimi decenni. Le sue opere, pubblicate tra l’America Latina, gli Stati Uniti e il nostro Paese, spaziano da La Argentina Fascista. Los orígenes ideológicos de la dictadura (2008) a The Ideological Origins of the Dirty War: Fascism, Populism, and Dictatorship in Twentieth-Century Argentina (2014), fino ai recenti Dai fascismi ai populismi (Donzelli, 2019), Breve storia delle bugie dei fascismi (Donzelli, 2020) e Mitologia fascista (appena pubblicato sempre da Donzelli, pp. 226, euro 19), dove riflette sulla macchina mitologica dei fascismi a partire dalle opere di Borges, Freud e Schmitt.
Professor Finchelstein che destra è quella che secondo tutti i sondaggi si avvia a vincere le elezioni italiane?
Nella coalizione convergono diverse culture del populismo di destra, ma ovviamente il punto centrale di questa vicenda è rappresentato dal profilo politico di Giorgia Meloni che guida questo schieramento e che dal punto di vista storico non si può che considerare erede del neofascismo propriamente detto.
Il suo ultimo libro analizza l’importanza del mito nelle culture dei fascismi storici. Da questo punto di vista, come valuta la retorica della leader di Fratelli d’Italia che evoca costantemente un’idea di nazione che sembra assumere proprio la forma del mito?
Diciamo che per queste destre che puntano molto, se non tutto, sulla politica dei sentimenti, dell’irrazionalità, come anche su un approccio basato sul narcisismo, sulla figura messianica del leader, il mito continua a restare centrale, anche se magari in forme via via rielaborate. A molti può apparire un linguaggio innocuo, ma parlare di nazione invece che di Paese ha un valore e un significato ben precisi. E ci si deve domandare cosa significhi tale parola per chi in un modo o nell’altro viene dalla cultura del fascismo o del cosiddetto postfascismo. Viene così da pensare che l’idea di nazione a cui guarda Giorgia Meloni si possa basare su qualcosa che ha che fare con la razza o la religione, su elementi che possono escludere piuttosto che integrare, e che certamente c’entrano poco con ciò che viene definito dalla vostra Costituzione. Credo si possa affermare che nella Storia italiana la parola «nazione» sconti un passato negativo, addirittura distruttivo per i diritti di molti. Perciò ritengo preoccupante che proprio una leader di estrema destra vi faccia ricorso con tale costanza, tranne che non sia un modo implicito per rifarsi a quel passato.
Lei ha analizzato a lungo il rapporto tra il fascismo e il populismo e, in alcuni casi, il passaggio dall’uno all’altro fenomeno. Come si può riassumere questo tipo di orizzonte alla luce dell’attualità politica?
Partiamo da un elemento: la storia che porta dal fascismo al populismo è essenziale per comprendere i processi politici a noi più vicini. Infatti, fascismo e populismo pur avendo per lunghi tratti una storia comune, hanno seguito due traiettorie diverse. Il fascismo è stato una forma di dittatura politica, spesso emersa dall’interno della democrazia con l’intento di annientarla. Il populismo invece è scaturito da altre esperienze autoritarie e nella maggior parte dei casi ha alterato i sistemi democratici, senza quasi mai arrivare a distruggerli. Nel vostro Paese, come nel resto dell’Europa, negli Stati Uniti e in America Latina, il populismo contemporaneo può essere definito come una forma autoritaria di democrazia, che prospera in contesti di crisi politica, reale o percepita: pone un problema al contempo di scarsa rappresentanza politica, che induce la gente a ritenere che le proprie preoccupazioni siano ignorate dai governi, e di crescente disuguaglianza economica e sociale, che fomenta posizioni politiche radicali e nazionaliste. Detto questo, tornare alla genesi di tutto ciò ci può aiutare a comprendere anche gli sviluppi attuali della situazione. Dopo il 1945, con la sconfitta dei fascismi storici e il loro portato di militarizzazione della politica, di razzismo istituzionalizzato, di politica dell’irrazionale e, non ultimo, di dittatura, nell’estrema destra ci si è interrogati su come continuare ad alimentare un progetto illiberale e anti-progressista nelle mutate condizioni storiche. In questo senso si sviluppa un fenomeno che io chiamo postfascismo – non nel senso stretto che al termine si è dato negli ultimi decenni in Italia – che è poi per molti versi l’annuncio dei successivi fenomeni di populismo di destra. Penso, a titolo di esempio, a fenomeni affini ma che hanno conosciuto esiti diversi nella pratica come quelli dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini nell’Italia della seconda metà degli anni Quaranta, della dittatura di Getúlio Vargas in Brasile, tra il 1937 e il 1946, o allo stesso Juan Domingo Perón che guidò l’Argentina dal 1946 al 1955. Sia Vargas che Perón debuttarono come dittatori per poi convertirsi in presidenti eletti democraticamente. Chiaramente. l’esito di questo processo fu in entrambi i Paesi una democrazia autoritaria, illiberale che rigettava il pluralismo.
Come leggere, alla luce di tali elementi le culture politiche espresse dalla destra plurale italiana dove da tempo postfascismo e nazionalpopulismo sembrano contendersi la scena?
Si può ragionare del caso italiano nel contesto dei populismi odierni. Penso a Donald Trump che ha tentato perlomeno di favorire una sorta di colpo di Stato con l’attacco dei manifestanti a lui fedeli a Capitol Hill del 6 gennaio del 2021. Una vicenda che a mio giudizio rappresenta una sorta di rottura, non solo simbolica, all’interno della storia del populismo così come l’abbiamo conosciuto nel corso del XX secolo, perlomeno a partire dal 1945. Vale a dire che mentre in precedenza si è assistito ad una progressiva presa di distanza dal fascismo storico, malgrado l’approdo ricercato fosse ad una democrazia autoritaria, oggi gli aspetti che rimandano a quella tradizione politica sembrano apparire, nei diversi contesti, in piena luce. Così, nel contesto italiano, rispetto alla prima coalizione berlusconiana, quella che vinse le elezioni nel 1994 – aprendo per molti versi la strada ad una lunga egemonia reazionaria nella società – e dove Alleanza Nazionale cercava di accreditare la legittimità del postfascismo come progressiva presa di distanza da quel passato ingombrante, oggi con la leadership di Giorgia Meloni si ha l’impressione di assistere invece al processo inverso dove a primeggiare sono gli elementi politici che sembrano avere meno a che fare con la democrazia costituzionale.
Lei ha studiato in profondità anche il populismo latinoamericano, e il 2 ottobre si vota in Brasile: la traiettoria del leader di estrema destra e attuale presidente Jair Bolsonaro ha qualche tratto in comune con quanto accade in Europa?
Diciamo che stando ai sondaggi, a differenza di quanto potrebbe accadere con Meloni, Bolsonaro sembra avviarsi ad una sconfitta, ma la sua sola presenza al potere ha già prodotto il coagularsi di una coalizione chiaramente antifascista, cosa che invece non mi risulta sia avvenuta nel vostro Paese. Quanto, invece, alle possibili similitudini con l’Europa e l’Italia, come dicevo già in precedenza, credo che anche il caso del Brasile indichi il progressivo scivolare del populismo di destra verso posizioni para-fasciste che cercano di mettere in discussione gran parte delle regole democratiche approfittando della quali cono giunti al potere.
In conclusione, da storico del fascismo e del populismo come definirebbe le coordinate del pensiero e della cultura di destra che si candidano a diverse latitudini ad una preoccupante egemonia interpretando la modernità in forme regressive?
In estrema sintesi credo si possa parlare di un radicale rifiuto della diversità e del pluralismo, anche nei suoi aspetti normativi o costituzionali, specie quando si evoca il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo o del presidente. Sul fondo, c’è poi il tentativo di dipingere i propri avversari politici come «nemici della nazione». Tutti elementi che sembrano rimandare a ciò che lo storico israeliano del fascismo Zeev Sternhell definiva come «anti-illuminismo» e che, pur se rielaborati o riverniciati, continuano ad evocare un rigetto degli aspetti egualitari e pluralistici della modernità.