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28 Luglio 2022Francesca Archibugi
Le mie storie un unico grande film
In quei toni remissivi, in quella voce mai troppo alta, in quel cerchietto che le scopriva il viso nelle prime foto dai set, sottolineando la contraddizione, solo apparente, tra aspetto da collegiale e piglio da regista, c’è la personalità di una donna che molto tempo fa ha realizzato, nei fatti, la parità dei diritti. Senza combattere, senza lanciare invettive, senza allinearsi su schieramenti vetero-femministi. Per Francesca Archibugi, classe 1960, figlia dell’urbanista Franco e della poetessa Muzi Epifani, debuttante, nell’88, con Mignon è partita, un film che fece epoca per il modo con cui descriveva il rito di passaggio della crescita in una famiglia romana della borghesia agiata, l’uguaglianza tra i sessi non è stata oggetto del contendere, semplicemente perché, nel suo mondo, era data per scontata. In questi giorni, a Roma, i suoi film sono proiettati nella retrospettiva del «Cinema in Piazza», organizzata dall’Associazione Piccolo America: «Certe volte ho la sensazione di aver fatto un unico, lungo film. Natalia Ginzburg ha detto che i suoi personaggi sono in qualche modo tutti parenti. Non voglio paragonarmi a lei, ma questo è il sentimento che provo verso i miei film, mi sembrano anche loro parenti, parte di uno stesso universo».
I suoi film hanno descritto l’Italia, come in un grande affresco a puntate. È d’accordo? «La mia tensione è sempre stata quella di raccontare, in modo complessivo, romanzesco. Non ho mai avuto voglia di parlare di me, l’autobiografia non mi ha attratta, è talmente più interessante parlare degli altri esseri umani».
Quanto è cambiata la condizione femminile dai suoi inizi ad oggi?
«Le cose sono mutate tantissimo. Norberto Bobbio diceva che la vera grande rivoluzione del Novecento era stata, appunto, la liberazione femminile. Ed è normale che, come accade per tutti i cambiamenti antropologici, si proceda per passi e contrappassi, a volte basta un passo falso per avere l’impressione di essere precipitati indietro. Il percorso però non si arresta, lo vedo guardando le mie figlie. Ci si può scoraggiare, i diritti non sono mai del tutto acquisiti, bisogna essere pronti a rilanciare, i Medio Evi prossimi venturi sono sempre dietro l’angolo».
Il ritorno del divieto di aborto in molti Stati americani farebbe pensare al peggio.
«Quello che è successo mi ha molto colpito, penso che bisogna cercare di capire che cos’hanno nella testa le persone favorevoli alla decisione della Corte Suprema, è troppo facile insultarle e basta. Ci sono donne che danno valore a una cosa che, dal nostro punto di vista, è un grumo di cellule, mentre per loro è una vita e ha un significato quasi esoterico. Dobbiamo fare lo sforzo di capire che cosa possa esserci dentro questo sprofondo culturale. Tentare di comprendere non vuol dire giustificare, ma siccome noi siamo più evoluti dovremmo provare a spiegare certe manifestazioni che, in fondo, riflettono solo paura cieca».
I più piccoli sono stati spesso al centro dei suoi film. Come mai?
«Non saprei, per me i bambini sono personaggi come gli altri, non vedo differenze tra loro e gli adulti, li tratto come esseri umani di pochi anni. Direi che più che essere io a mettere bambini nei film, sono gli altri a toglierli».
Dicono che dirigere i bambini è molto difficile. È vero?
«È più faticoso, questo sì, è un corpo a corpo continuo, però, quando sono dentro la scena e la vivono, i bambini possono farti regali meravigliosi, raggiungono intensità pazzesche. Truffaut diceva che dirigere bambini è come girare scene con l’elicottero, quindi con un sacco di problemi. La prima volta ti chiedi perché mai hai scelto di farlo, poi inizi a salire e, improvvisamente, capisci perché l’hai fatto».
Quali sono stati gli incontri fondamentali della sua vita?
«Da ragazzina quello con Federico Caffè, era amico di famiglia, siccome era piccolo di corporatura lo chiamavamo “pocket coffee”. Con me è stato insieme dolce e educativo. Avevo appena iniziato a fare l’attrice, sono andata a chiedergli consigli, non sapevo a quale facoltà iscrivermi. Gli confessai che volevo fare la regista e non l’attrice, lui approvò, e poi mi disse di non scegliere filosofia, ma psicologia. È stato il consiglio più luminoso della mia vita. Poi, al Centro Sperimentale, ho conosciuto Furio Scarpelli, grazie a lui, ho capito che il mio grande amore per la letteratura poteva unirsi a quello per la scrittura dei film. L’altro incontro fondamentale è stato con Ermanno Olmi, lavorando accanto a lui in moviola ho capito l’importanza dell’artigianalità nel cinema».
Di lei si dice che è una regista materna. È vero?
«Sul set non ho mai strillato, se qualcuno fa una cazzata basta che mi fermi e che schiuda le labbra, non c’è bisogno di parlare, le persone capiscono. Non ho mai creduto all’immagine del regista imperioso, con il cappello e gli stivali. Questo tipo di preoccupazione riguarda in genere gli uomini…».
Ha diretto Marcello Mastroianni. Com’era?
«Un uomo di gentilezza infinita, ero una ragazzina al secondo film e lui non mi ha mai trattato con falsa umiltà. Marcello chiedeva tutto, era uno di quegli attori che senza lo sguardo del regista si spengono. Mi ha insegnato tantissime cose, anche tecniche. Per esempio, se in un’inquadratura si vedeva con la pappagorgia mi diceva “mi alzi un po’ la macchina così non si vede?”. Da allora lo faccio sempre».
C’è stata nella sua carriera una critica che l’ha ferita?
«Da tempo non leggo più le critiche. Le cose brutte fanno male e te le ricordi per tutta la vita. Una volta, agli inizi, un critico scrisse di me “con il pretenzioso nome di Francesca Archibugi”, come se me lo fossi data da sola…spesso, ed è quella la cosa che ferisce di più, la critica diventa un processo alle intenzioni».
Ha girato Il colibrì ed è impegnata nelle riprese della serie tratta dalla Storia di Elsa Morante. Come si sente?
«Si sono susseguiti due impegni che amo tantissimo, una fortuna così ti capita raramente, sono quei momenti in cui gli astri si allineano, al là delle migliori previsioni. Per la serie ci vorrà ancora tempo, è un lavoro lungo».
Epidemia, lockdown, recessione. Quale sarà l’eredità di tutto questo?
«Il Covid ha accelerato un processo in atto, Scarpelli diceva “la vita è sceneggiatrice”. Stavamo già iniziando a chiuderci nelle case, perdendo un tessuto sociale di relazioni, la pandemia ci ha fatto fare un balzo in avanti di 10-15 anni. Oggi anche se abbiamo ripreso le nostre vite sociali, sentiamo tutti forte il richiamo della casa, del divano, dello stare soli e collegati. Penso sia una fase ineluttabile dell’umanità, innanzitutto perché siamo tanti, quasi 8 miliardi. Pensiamo all’Italia, ma quanto siamo stati bene quando eravamo 30-40 milioni? Ci dicono che dobbiamo fare più figli, ma perché? Potremmo invece aprirci all’accoglienza, al resto del mondo. La pandemia ha velocizzato una tendenza malinconica, l’Occidente, l’Europa, l’America, sono in un periodo di grande decadenza, si stanno spegnendo».
Di questa ineluttabilità fa parte per molti la sparizione del cinema in sala in favore delle piattaforme. L’associazione che le dedica la retrospettiva lotta contro questo: cosa ne pensa?
«Mi piacciono le persone che combattono, hanno qualcosa di eroico, parlo anche dei registi che dicono di voler mandare i loro film solo in sala, è un aspetto romantico di cui c’è bisogno. Ma qualcosa sta accadendo, è innegabile, se vai al cinema a Parigi incontri persone che conosci, se ci vai qui a Roma non incontri nessuno. L’altro giorno sono andata a vedere il film di un amico, molto bello, ero da sola, mi veniva da piangere, altro che rito collettivo».