Non è una sorpresa la spaccatura nel centrodestra. Sul famoso “terzo mandato” dei presidenti di Regione era inevitabile, a meno di un rinvio del voto nella commissione Affari Costituzionali. Viceversa il voto c’è stato e la frattura anche. L’emendamento di Salvini è affondato, ma il governo è rimasto in piedi: ancora una volta il vero sconfitto è il capo della Lega, il quale non è riuscito a proteggere i “governatori” della Lega e tra un anno si troverà a dover gestire un personaggio popolare come Zaia rimasto senza un ufficio.
Chi prova a guardare lontano vede delinearsi una sorta di alleanza degli amministratori locali pronti ad aprire le ostilità contro un Salvini che ha schierato la Lega all’estrema destra, su posizioni persino innaturali; che ha stretto un patto di ferro con Putin al punto di doverlo difendere nel caso Navalny; e che alla fine è rimasto con un pugno di mosche, avendo perso — almeno così sembra — due terzi e oltre dei consensi raccolti nel momento d’oro del Carroccio.
Ora la questione è: a chi giova il nuovo incidente che scuote la maggioranza di governo? In teoria dovrebbe aiutare l’opposizione, ma c’è da dubitarne. Elly Schlein e Giuseppe Conte continuano a non essere una coalizione. La fase nuova intravista da Zingaretti è più che altro un auspicio, un modo per alimentare la speranza alla vigilia di elezioni importanti in Sardegna. Tuttavia l’asse di sinistra Pd-5S-Fratoianni/Bonelli è lungi dal rappresentare un’alternativa al destra-centro, una promessa di buon governo.
Qualcuno dalle parti di Italia Viva (Renzi) recrimina: se l’opposizione avesse votato compatta per l’emendamento leghista, forse l’esecutivo Meloni sarebbe caduto.
Un piano d’azione abbastanza spregiudicato, considerando che il partito di Elly Schlein è a sua volta diviso, e non poco, sul “terzo mandato”.
In definitiva la rottura di ieri trova da un lato l’opposizione impreparata, ma dall’altro getta un macigno sul sentiero del governo.
Per adesso si ha la conferma che la lotta di potere tra la premier e il suo rivale continua e non si arresterà fin quando uno dei due non sarà fuori gioco.
Sulla carta, è il leghista quello più a rischio: è il più debole, il più insidiato dai magistrati per via del Ponte sullo Stretto, il meno dotato di una visione a medio termine; e come se non bastasse, il più invischiato in una politica estera filo-russa non compatibile con un Paese aderente alla Nato, specie in una fase di forti tensioni internazionali.
Peraltro anche a sinistra la politica estera resta un nodo irrisolto. L’astuto Conte non è da meno del suo ex socio all’epoca del governo giallo-verde per quanto riguarda gli ammiccamenti filo-russi e in genere anti-occidentali. Un tempo sarebbe stato impensabile mettere in piedi una coalizione aspirante al governo senza fare chiarezza sulle scelte di fondo riguardanti la nostra collocazione internazionale. Adesso è tutto diverso: la politica estera sembra una questione minore in cui è ammessa la confusione. Un’insalata russa, si potrebbe dire.
Ma per tornare alla destra, neanche una disfatta in Sardegna dello schieramento restituirebbe l’antico smalto a Salvini.
La caduta di Truzzu sarebbe, va da sé, un evidente inciampo soprattutto per la presidente del Consiglio. Offrirebbe eccellenti argomenti a chi dice che si sta esaurendo la relazione speciale, durata un anno e mezzo, tra lei e un significativo settore di opinione pubblica. Tuttavia il leghista non sarebbe funzionale ad alcuna alternativa.
Del resto, non esiste in Italia l’istituto tedesco della sfiducia costruttiva, nemmeno in una versione pragmatica. Dopo il blocco del terzo mandato e al di là del caso Sardegna, il governo Meloni andrà avanti sia pure ammaccato. E se poi dovesse un giorno collassare, all’orizzonte stavolta non ci sarebbe un esecutivo tecnico.