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20 Settembre 2023di Federico Fubini
La legge di Bilancio che si avvicina promette di essere, di gran lunga, la più difficile degli ultimi anni. Lo confermano i dati del fabbisogno del settore pubblico, che ieri sera il ministero dell’Economia ha pubblicato con qualche giorno di ritardo rispetto alle prassi consolidate. Nei primi sette mesi dell’anno il disavanzo di cassa del settore statale è di 79 miliardi, circa 45 miliardi in più rispetto allo stesso periodo del 2022. E, paradossalmente, si tratta di un miglioramento: i dati fino al mese prima, relativi alla prima metà dell’anno, mostravano un peggioramento anche maggiore con 52 miliardi di disavanzo in più rispetto allo stesso semestre di un anno fa.
Non tutto è negativo come appare, se non altro perché gran parte dello scostamento ha motivazioni che erano da tempo piuttosto facili da prevedere. L’aumento del fabbisogno risulta aggravato in primo luogo dal mancato versamento, finora, della terza rata del Piano nazionale di ripresa; il bonifico della Commissione europea dovrebbe però arrivare nella prima decade di ottobre e ridurre così il fabbisogno di cassa di 18,5 miliardi. Inoltre, iniziano a farsi sentire sui flussi finanziari dello Stato gli effetti dei crediti d’imposta accumulati negli anni scorsi a causa dei bonus immobiliari. Banche, imprese e famiglie stanno già godendo di quei diritti dei contribuenti a non pagare le tasse; si spiegano così nei primi sette mesi dell’anno almeno una decina di miliardi di entrate mancanti, rispetto a quanto sarebbe avvenuto senza l’impatto dei bonus immobiliari. Questi due fattori – rata in ritardo del Pnrr e effetti dei crediti d’imposta – rappresentano nel complesso poco meno di trenta miliardi dei 45 miliardi supplementari di fabbisogno registrati fino alla fine di luglio rispetto allo stesso periodo del 2022.
Il disavanzo
L’obiettivo di un deficit al 4,5% del Pil per quest’anno sembra ormai fuori portata
Il resto della differenza sull’anno scorso è di circa sedici miliardi, pari a quasi lo 0,8% del prodotto interno lordo (Pil). In parte potrebbe essere riassorbita entro la fine dell’anno; in parte però andrà senz’altro ad alimentare un rosso nei conti dello Stato più profondo di quanto il governo immaginasse qualche mese fa. Gli obiettivi di un deficit al 4,5% del Pil per quest’anno e anche al 3,7% del Pil per il 2024 sembrano ormai fuori portata, ancora prima che le agenzie statistiche Eurostat e Istat decidano se attribuire ai conti di quest’anno gli oneri da bonus immobiliari che dall’inizio dell’anno continuano ad accumularsi per decine di miliardi di euro. Con una crescita che si sta attestando a ritmi ben sotto all’1% all’anno sia nel 2023 che probabilmente nel 2024, con l’inflazione in graduale calo e con l’onere dei bonus in continuo aumento, la questione non è dunque più a quanto ammonti il presunto «tesoretto» nei conti; lo spazio per questa o quella misura espansiva nella prossima legge di Bilancio è ai minimi termini. Piuttosto, il governo dovrà guardarsi dal rischio che il debito pubblico inverta la tendenza alla discesa segnata nell’ultimo paio di anni. Scrive in proposito nella sua ultima nota analitica di ieri Fabio Balboni, economista della banca britannica Hsbc: «Dopo un calo marginale quest’anno, il rapporto fra debito e prodotto interno lordo potrebbe riprendere a salire l’anno prossimo».
La frenata dell’economia è sicuramente una delle cause della debolezza delle entrate fiscali che il ministero dell’Economia cita ieri fra le grandi cause dell’aumento del fabbisogno. Di certo nei primi sei mesi dell’anno gli «incassi correnti» sono cresciuti di appena il 4,1%: in termini reali e in proporzione all’economia, in effetti c’è una contrazione del gettito se si tiene conto di quando sarebbe dovuto essere con la crescita e l’inflazione accumulate nell’ultimo anno; con il tempo si capirà poi in che misura questa erosione sia dovuta a un’eventuale ripresa dell’evasione fiscale. Quanto alle spese – i «pagamenti correnti» – la Ragioneria dello Stato registra invece una progressione del 13,7%, oltre tre volte più rapida rispetto a quella delle entrate in termini nominali. I rialzi dei tassi della Banca centrale europea, decisi per contrastare l’inflazione, hanno infine determinato un aumento degli interessi pagati dal Tesoro sul debito: +16% fra gennaio e giugno del 2023 (rispetto allo stesso periodo di un anno fa).