L’insalata estiva di nonno Gino
Ingredienti. Il procedimento
L’autrice
Francesca Giannone
Quando nonno Gino, col suo sorriso dolce e sottile, esclamava: «Chi viene allu fore?», chiudevo alla svelta il libro dei compiti per le vacanze, mi alzavo strascicando la sedia e mi precipitavo per strada, facendo a gara con mia sorella e i miei cugini a chi arrivava prima, intanto che nonna Maria, con lo strofinaccio su una spalla, ci urlava dietro: «Piano, se no cadete! Mannaggia a voi, mannaggia!».
Una volta fuori, ci mettevamo in fila e il nonno, con un «Oh issa!» ci sollevava uno dopo l’altro dalle ascelle e ci sistemava sul cassone della sua Ape Car gialla. Aveva braccia solide e venose, il nonno. Ed era bello. Qualcuno in paese lo chiamava «Pasolini», dicevano che erano «uguali sputati». Quando gli chiedevo chi fosse, questo signor Pasolini che tanto gli assomigliava, lui, arricciando le labbra, rispondeva sempre: «Uno giusto».
Metteva in moto l’Ape Car e si avviava, imboccando la strada sterrata che portava in campagna, allu fore. In quei pochi minuti di tragitto, uno di noi bambini puntualmente intonava una canzone: ai miei cugini, maschi tutti e tre, piaceva la sigla di Mazinga e, non appena attaccavano con «Trema il regno delle tenebre e del male, dalla fortezza della scienza arriva con i suoi pugni atomici Mazinga», io e mia sorella protestavamo e per dispetto prendevamo a cantare di Lady Oscar, di quella bimba nata alla corte di Francia a cui il papà aveva dato il nome di un maschio. Le voci si sovrapponevano, e alla fine diventava una sfida a chi riusciva a stonare più forte. Dalla piccola cabina di guida, il nonno sporgeva appena la testa e ci intimava «Oh!», ma in fondo se la rideva divertito.
Arrivati al grande cancello in ferro battuto, fermava l’Ape Car e scendeva ad aprire, spiegando un catenaccio arrotolato su se stesso, senza chiave e senza lucchetto. «E che fa? Tanto in paese ci conosciamo tutti. Nessuno ruba a nessuno», diceva.
Ci aiutava a scendere così come ci aveva fatto salire e, in men che non si dica, noi bambini eravamo già scalzi, pronti a rincorrerci tra le piante di pomodori e di melanzane, tra gli alberi di percoche e gli albicocchi. Dal capanno degli attrezzi, il nonno prendeva un paio di cassette di plastica, le avvicinava all’orto e cominciava a infilarci dentro i grappoli di pomodori Regina, tondi e maturi. Noi cinque, nel frattempo, riempivamo un secchio alla fontana e usavamo l’acqua per impastare la terra con le mani, fino a formare delle palle argillose che ci tiravamo addosso per gioco. Il nonno, di tanto in tanto, alzava lo sguardo, si asciugava il sudore dalla fronte col polso e ci indirizzava un sorriso. Solo dopo aver messo a posto i pomodori sul cassone, ci lanciava un fischio a mo’ di richiamo.
Sporchi di terra che era un piacere, ci caricava di nuovo sull’Ape Car, uno alla volta. «Mo’ che vi vede la nonna, così conciati…» ridacchiava. E, difatti, tornati a casa, la nonna dava di matto tutte le volte. «Ho lavato i pavimenti stamattina, mo’ me li inzozzate tutti!» si lamentava, esasperata. Perciò ci obbligava a entrare in casa in fila indiana e a camminare rasente al muro finché non raggiungevamo il piccolo giardino sul retro, lì dove c’era un tubo in plastica verde agganciato a un rubinetto. Dopo averci strigliato per bene, ché l’acqua che scolava sulle mattonelle di pietra si faceva marrone, ci lasciava sotto il sole ad asciugare. Soltanto allora, e dopo essersi sincerata che eravamo puliti, ci dava il permesso di rientrare.
Mentre dal televisore acceso in soggiorno partiva il motivetto di apertura del Tg1, nonno Gino si sedeva al lungo tavolo di legno in cucina e, con indosso la canottiera bianca a righe che spiccava sulla pelle ambrata, si metteva a preparare la sua famosa insalata estiva, di cui, lo sapeva, eravamo ghiotti. Tagliava in quattro parti i pomodori appena raccolti, le minunceddre a rondelle, la cipolla rossa in fettine sottili e metteva tutto in una ciotola. Poi ci aggiungeva la rucola selvatica, l’origano sbriciolato sul momento dal mazzetto, una spolverata di sale, parecchi giri di olio extravergine di oliva e acqua naturale quanto bastava. Infine mescolava a lungo con un cucchiaio. «Ecco qua», diceva soddisfatto, allungando la ciotola per farci vedere, intanto che nonna Maria portava in tavola un piccolo recipiente pieno d’acqua e le friselle di grano. «Per cinque secondi la dovete bagnare, non uno di più se no si ammolla», ripeteva il nonno. E così, a turno, immergevamo la frisella nella bacinella e la tenevamo ferma con un dito, contando ad alta voce fino a cinque.
Da adulta ho provato a rifare la stessa insalata a ogni estate, senza la possibilità di chiedere al nonno se stavo facendo le cose a dovere. Negli anni, mi è toccato fidarmi dei ricordi. E tuttavia, nonostante seguissi la ricetta alla perfezione e usassi gli stessi prodotti dell’orto del nonno, il sapore della sua insalata estiva non l’ho mai più ritrovato. Finché ho capito che l’ingrediente che rendeva l’insalata buona come nient’altro era la terra. Ero io sporca di terra, spettinata dal gioco, libera come non lo sarei più stata.