Secondo un sillogismo gaglioffo mettere in discussione uno degli elementi della complessa ricostruzione giudiziaria e storica relativa alla strage neofascista del 2 agosto 1980 — la responsabilità materiale di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti — significherebbe sostenere un’altra verità rispetto alla natura politica di quella stessa strage. Le cose non stanno affatto così.
Chi vuole riscrivere la storia dell’Italia repubblicana — è il principale programma ideologico del governo di destra — intende azzerare, attraverso un simile espediente, il ruolo criminale del neofascismo italiano e la sua funzione gregaria e ancillare rispetto alle trame eversive e autoritarie messe in atto da settori della massoneria deviata e da segmenti infedeli degli apparati dello Stato.
È questa la posta in gioco delle più recenti polemiche sulla strage di Bologna. E, al tempo stesso, la materia di una resa dei conti all’interno delle varie famiglie della destra, dove le parole di Marcello De Angelis suonano come critica, a dir poco feroce, delle affermazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa. E dove non è possibile sapere per quanto ancora la presidente del Consiglio potrà traccheggiare, evitando di definire con un preciso aggettivo qualificativo l’eccidio della stazione di Bologna e limitandosi al più pudibondo «terroristico». Mentre, che si tratti di una strage di matrice neofascista, a distanza di 43 anni e dopo sentenze ormai definitive, risulta certo.
Lo dico con tanta maggiore convinzione proprio perché fui tra coloro che, alcuni decenni orsono, espressero dubbi e perplessità su importanti elementi di quella stessa ricostruzione giudiziaria e storica.
Le successive indagini e le relative sentenze, a mio parere, hanno finito col confermare la sostanza dell’impianto accusatorio, così che oggi mi sento di affermare quanto segue: 1. L’attentato del 2 agosto 1980 viene ideato e realizzato da militanti neofascisti dell’area dei Nuclei Armati Rivoluzionari; 2. La posizione personale e la responsabilità soggettiva di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti appaiono tuttora incerte, e la loro concreta partecipazione all’attentato non appare provata al di là di ogni ragionevole dubbio: a partire dalla debolezza degli indizi relativi alla loro presenza a Bologna il giorno della strage; 3. All’attentato contribuiscono, come ispiratori e finanziatori, e come disinformatori e depistatori, uomini appartenenti ad alcuni settori della massoneria e degli apparati della sicurezza: segnatamente Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto d’Amato, Mario Tedeschi, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte, Francesco Pazienza; 4. La cosiddetta “pista palestinese” è né più né meno che una balla colossale, destinata a creare confusione e disorientamento; e costituisce la concreta espressione di quella volontà di “riscrivere la storia” che, come si è detto, è il vero obiettivo della violenta “battaglia culturale” in corso.
Mi sento, dunque, di confermare quanto dissi e scrissi negli anni ‘92-95, quando sostenni di non avere «alcuna esitazione ad accettare la definizione di fascista per quella strage», pur essendo assai scettico «sulle responsabilità personali di Mambro e Fioravanti». Posso affermare che non diversa era l’opinione di Rossana Rossanda nel corso di lunghe e tormentate discussioni sull’argomento. Per capirci, era come se non fossimo convinti della partecipazione di questo o quel presunto brigatista all’azione che portò al sequestro di Aldo Moro in via Fani: senza che, perciò, attribuissimo l’azione terroristica ad altri diversi dalle Brigate Rosse.
Ma torniamo alla polemica attuale. Si tratta di una guerra aperta per dare un nome alle cose. E la posizione di Giorgia Meloni, in questo senso, è particolarmente delicata. Ha consentito a Ignazio La Russa di definire “neofascista” la strage di Bologna, ma non può farlo lei direttamente, perché troppo fitto è l’intreccio e troppo vischioso è il sistema di relazioni e di implicazioni, che legano la sua vicenda personale e politica a quel mondo, per potersene staccare con un taglio netto e definitivo. E perché — ecco un fattore cruciale — la strage di Bologna è quell’evento che compromette in profondità l’intera estrema destra italiana nel più efferato crimine di questo dopoguerra: non perché vi sia tutta direttamente coinvolta — non è così — ma perché quella vicenda secerne un grumo di ambiguità e di connessioni, di equivocità e di connivenze, di silenzi e di omertà, che si riproduce ininterrottamente, tra piazza e istituzione, dagli anni Ottanta fino a oggi. Cancellare questo grumo è così difficile perché esso rappresenta un frammento della storia di un movimento multiforme e carsico, che si è mosso con disinvoltura tra le fila del Movimento Sociale Italiano e quelle di Avanguardia Nazionale, tra l’entrismo nel sistema e l’extraparlamentarismo.
La vittoria elettorale del 25 settembre scorso ha sollecitato e galvanizzato aspettative latenti e pulsioni sotterranee di soggetti presenti nell’universo dell’estrema destra, che si riconoscono nella politica del “doppio binario” di Giorgia Meloni. Ciò perché ritengono che il proprio movimentismo possa convivere, venendone tutelato e incentivato, con il governatorismo della premier. Quest’ultima non può rinunciare ad alcuna scheggia delle proprie aree di consenso: perderebbe voti, ma anche identità. Ed è questo che non può essere tollerato.