A Milano ha firmato la Fiera di Rho nata dove un tempo c’era la raffineria dell’Eni, uno dei maggiori centri espositivi al mondo, tutto fatto in 26 mesi. Ma ha firmato anche quelle che lui chiama affettuosamente «le mie torrette», due torri d’autore – e di ardesia e pietra dorata – anche loro nate dalle ceneri di una fabbrica. Il maestro Massimiliano Fuksas, la nostra più famosa “archistar”, la più corteggiata all’estero, chiarisce subito di non voler entrare nel merito dell’inchiesta milanese: «Non sono io a dover giudicare, ci sono i magistrati per questo». E precisa anche di non conoscere a fondo la realtà odierna del capoluogo lombardo, perché non ci lavora più dal 2003: «Il mio studio ha sedi a Roma, Parigi, Shenzhen e Shanghai, ma non a Milano». Tuttavia, accetta di riflettere con noi su come la città si sia trasformata, seguendo dinamiche comuni ad altre metropoli globali.
Partiamo da qui. A Milano in dieci anni si è costruito l’equivalente di quanto si è costruito in Piemonte e in Toscana. Possiamo dire, a occhio, che è troppo?
Il problema non è quanto si costruisce. In proporzione, nel Medioevo si è costruito molto di più, ma perché servivano case per far vivere la gente. Oggi la questione vera, alla base, è: per chi e per che cosa si costruisce, o si rigenera? Oggi le grandi città attirano gli abbienti, i benestanti, insomma i ricchi, e rifiutano quelli che non hanno risorse. È un movimento profondo, iniziato da tempo. In tutta Europa i centri storici erano, in origine, quartieri dove vivevano i poveri. Dai quali poi sono stati espulsi. Poi sono stati espulsi anche dalle città, e sostituiti da altre classi sociali. Oggi siamo molto oltre: le classi medie e alte sono sostituite dai terribili Airbnb. E la città non c’è più, non c’è più la comunità. Sostituita da luoghi dove uno affitta una casa di cui non conosce i proprietari, non li vede e non li vedrà mai, digita un codice, entra, esce. Anche Milano si è sviluppata così. Tutta la zona di piazza Gae Aulenti è nata da Hines, la multinazionale che ha messo a disposizione le proprie risorse al padre dell’imprenditore Catella, una delle persone più ricche al mondo. Poi ci sono i fondi, un altro fenomeno. Morale: la città non è più dei cittadini, non è più di nessuno. Non si sa di chi è. L’espulsione delle persone che lavoravano nella città è un processo iniziato da tempo. Oggi a Roma nel centro storico vivono 125mila persone, gli abitanti che vagano nell’area metropolitana sono 5 milioni. E così nell’area di Milano. Le città non hanno abitanti, e gli ultimi proprietari hanno fatto gli Airbnb e ormai in queste città si trovano solo fiumi di turisti.
È successo in tante metropoli: Milano si è newyorkizzata?
Milano, come New York, è per i ricchi. A Park Avenue una casa può costare fino a 200 milioni di dollari. Sa quanti sono i trilionari al mondo? 1200. Hanno 4 miliardi di persone che lavorano per loro. Per farli diventare ricchi. Ma quando dico ricchi, intendo il concetto di ricchezza attuale: immenso, inimmaginabile. Uno come Giorgio Armani, persona straordinaria, che incassa tre miliardi l’anno, non è considerato un ricco.
Sta dicendo che di fronte a queste potenze economiche le amministrazioni pubbliche, il comune, non possono avere un ruolo?
Non hanno nessuna capacità di resistere. Tutt’al più, se va bene, il comune potrà fare qualche casa dello studente. Se ci riesce. Nelle estreme periferie.
E non è in grado di far rispettare qualche regola?
La chiave di tutto questo ho provato a descriverla nel mio libro, È stato un caso (Mondadori). Dopo la rivoluzione francese, lentamente ma inesorabilmente, ricchezza e potere si sono rimessi insieme. Un ritorno indietro, una restaurazione. Questo cambia tutto: quando metti insieme economia e potere, l’elemento di mediazione salta. Da noi il primo a capirlo è stato Silvio Berlusconi. Oggi lo vediamo con Donald Trump. Ma è un fenomeno globale.
Torniamo a Milano: non ha saputo fronteggiare questo sistema?
Il potere è di pochi gruppi immobiliari. Succede in tutto il mondo. Che hanno acquisito tutte le aree, che a loro volta sono state vendute ai fondi: Qatar, Emirati. Parlo anche di quello che c’è a Milano intorno a piazza Gae Aulenti.
E la politica non ha chance di guidare la crescita delle città?
C’è poco da fare. La maggior parte degli italiani guadagna 1200 euro al mese, se gli va bene. Una casa in città costa il doppio.
Ed è fatale che questo sistema attiri speculatori?
Non mi sono spiegato. Quelli che lei chiama speculatori sono diventati la parte più importante e forte della società. Sono i fondi. Quello che possiede 5mila appartamenti a Milano, forse sta a Hong Kong. Magari in Siberia, in Australia. Non c’è l’identità. Una volta c’era Esselunga, si sapeva a chi apparteneva: un uomo in carne e ossa, con cui ho cenato una volta e che a un certo punto ha cominciato a parlare di Hitler. Lì ho pensato che fosse troppo e mi sono alzato e me ne sono andato. Ma lui esisteva, potevi confrontarti, prendere posizione. Oggi no, siamo tornati a una forma di Medioevo, di potere senza volto, inafferrabile.
Mi scusi, insisto: ci sono le regole, a Milano c’è la fatidica Commissione paesaggio.
Queste sono cose da giornalisti, o da architetti se vuole. La realtà è altrove. Quando ho insegnato alla Columbia University ho conosciuto una signora che era proprietaria di 5mila alloggi a Manhattan. Ma era un trust, mi ha spiegato: i suoi genitori hanno fatto un immenso trust da cui lei prendeva solo gli utili. Non poteva né vendere né comprare. È un meccanismo economico, non è che dici “adesso incontro il proprietario, quel mascalzone che ha fatto questa schifezza”. Non lo trovi, perché non c’è.
La magistratura milanese crede di aver trovato un bandolo.
La magistratura è un epifenomeno, può trovare un reato, ma i buoi sono usciti dalla stalla. E poi lasci che le dica: in Italia abbiamo 170mila leggi, in Francia ne hanno 6500, in Germania circa 7000. Abbiamo più leggi di tutti, e poi abbiamo tutti i regolamenti attuativi, e poi i regolamenti attuativi dei regolamenti attuativi. Un paese pieno di leggi, ma il piano regolatore è ancora quello del 1942. Non siamo riusciti ad adeguare la nostra società ai cambiamenti rapidissimi. Guardi, io queste cose le dico da trent’anni. Nel 2000 sono stato direttore della Biennale di Venezia, e il titolo l’avevo pensato anni prima: “Less Aesthetics, More Ethics”. Meno estetica, più etica. Con mia moglie Doriana abbiamo fatto filmare le città che già subivano questa rivoluzione. Era già un disastro. Girammo nei grandi accumuli di rifiuti dove i bambini raccoglievano spazzatura e plastica. Gli immigrati, il consumo del suolo, l’inquinamento. Invitammo architetti dimenticati, considerati pazzi, come Paolo Soleri che costruiva Arcosanti, una città sperimentale nell’Arizona. Abbiamo chiamato i giovani asiatici, che allora non lo conosceva nessuno. Oggi la Biennale che fa? Affronta “un po’” di sostenibilità, in maniera edulcorata.
Le inchieste bloccheranno la corsa di Milano?
Ma non è un processo che si blocca con un’inchiesta. Chi lo pensa si illude. La corsa si sospende per un attimo, si gira la pagina, si guarda da un’altra parte. La gente si annoia dei vostri articoli.
In tutto questo, c’è un’idea di sinistra che entra in partita?
La sinistra, la sinistra, la sinistra… faccio l’architetto, non mi faccia questa domanda. E tuttavia resto ottimista. Il Vangelo predica la liberazione degli schiavi, ma è stato scritto in un momento in cui non si poteva parlare di eguaglianza. Per la sinistra non resta che il “nemico”, e questo sistema è il vero nemico.
Ma ha senso provare a combattere questo sistema infernale?
Noi ci abbiamo provato, nel 1968 e poi nel 2000. Io non mi sono arreso, ma qualcosa succederà perché l’ingiustizia sociale è davvero profonda. Spero che non siano altre guerre. Ma, ripeto, al mondo ci sono 9 miliardi di persone al servizio di poche migliaia.
Le città finiranno?
No, le città continueranno a farsi, il 66 per cento degli abitanti della Terra vive in aree urbane. In questo momento mi piace difendere i borghi, sto mettendo a posto Bibbona, servirà a qualcuno per farci un centro per studenti, una cosa pubblica. Noi le cose le facciamo: con Shimon Peres (Nobel per la Pace, ex presidente di Israele, scomparso nel 2016) ci siamo visti a Giaffa per parlare del Centro della pace. Guardavamo il mare dal suo ufficio, che gli ho progettato io. Ci siamo detti: siamo qui davanti al mare, qualcuno arriverà, noi dobbiamo vederlo. Siamo sognatori, forse. Ma alla fine il mondo sopravvive.