L’intelligenza artificiale non ha fantasia
11 Maggio 2023OneRepublic – Wherever I Go
11 Maggio 2023
Inviato a Otterlo
Quanti futurismi ci sono nella storia artistica del Novecento? Uno è poco e tre son troppi, e questo considerando che il primo, quello fondato dal Manifesto di Marinetti nel 1909, impiegò i primi anni per fare il rodaggio, sia sul piano teorico, producendo vari manifesti e idee, sia su quello strettamente artistico. Come ogni novità clamorosa, fatto lo scoop, impiegò dunque un certo tempo per affermarsi. Ma è proprio questa una delle prime grandi novità: la strategia “pubblicitaria”. Con i manifesti, le performance, le sonorità plastiche dei proclami in pubblico che convergono a fare del Futurismo il primo movimento delle avanguardie, il gruppo marinettiano interpretava quella sorta di caos imminente (che deflagrerà con la Grande Guerra) come tentativo, sopra le righe, cioè attraverso iperboli creative, di dare un linguaggio alla svolta tecnica e macchinica della modernità. In Italia, la prima fase dell’esperienza futurista coincide, paradossalmente, con uno sguardo nuovo sotto il profilo dell’estetica pittorica e scultorea, ma sostanzialmente ancora tradizionale nei mezzi e segnata sul piano artistico dal carisma di un genio come Boccioni nelle cui vene correva sangue michelangiolesco.
C’è un secondo momento di questa epoca di fondazione del futurismo, dunque sempre nella coda di cometa dell’invenzione marinettiana, che invece è quasi una fuga da tutto ciò che ancora cade negli schemi tradizionali boccioniani, e si pone come aggressiva e divertita “ricostruzione del mondo”secondo una idea che meglio corrisponde alla categoria “politica” di totalitarismo: una libertà che si afferma come riduzione del mondo sotto un solo principio creativo. La palingenesi che il futurismo incarna si sposa con la categoria dell’avanguardia, termine mutuato dal gergo militare – e sarebbe interessante risalire al primo impiego del concetto in ambito artistico per capire quanto fosse comune nel linguaggio quel vocabolo. Certo è, scrive Fabio Benzi, curatore con Renske Cohen Tervaert al Kröller- Müller Museum di Otterlo (fino al 3 settembre) della mostra Futurism & Europe. The Aesthetics of a New World, che solo pochi anni dopo il suo atto di fondazione a Parigi, la prima occasione mancata del Futurismo per andare anche oltre i propri confini fu quella dell’Armory Show, la kermesse che nel 1913 spalancò agli occhi degli americani il mondo delle avanguardie (dove Duchamp espose il celebre Nudo che scende le scale del 1912, che era stato rifiutato al Salon des Indépendants di Parigi, a dire di qualcuno perché “troppo futurista”…). Volendo chiamare a testimone il genio della storia, bisogna costatare che quel luogo a New York era idealmente consono al concetto militaresco dell’avanguardia: era infatti una caserma costruita pochi anni prima in uno stile abbastanza accademico (ma, visto oggi, in anticipo di quasi un secolo sul postmoderno), che per molti anni fu l’armeria del 69° Reggimento e dopo vari cambiamenti nella destinazione d’uso ancora oggi è la sede del Quartier generale del 69° Reggimento di fanteria della Guardia Nazionale, in piena Manhattan.
Fatta questa breve diversione – che prova soltanto come nulla avvenga quasi mai a caso, perché gli uomini scelgono i luoghi che li identificano secondo intenzioni precise –, si deve aggiungere che Benzi si è assunto il compito esaltante ma oneroso di dimostrare che in Europa il Futurismo ha influenzato e talvolta
avvicinato a sé le altre avanguardie dell’epoca. Idea che, sul piano degli studi storici, aspetta da trent’anni di essere riconosciuta con onestà da molta critica internazionale (soprattutto da quando ha cominciato a cadere il pregiudizio che imparentava futurismo e fascismo). Benzi mette in luce nel suo saggio come sia esistita una linea a doppio scartamento per così dire; ovvero quella “più classica”, boccioniana appunto, per cui il futurismo vuole cambiare il mondo ma ripartendo da alcuni punti fermi che hanno fatto la storia dell’arte nei secoli precedenti: che cosa, per tornare a quanto già detto, è più michelangiolesco della scultura Forme uniche della continuità nello spazio, del 1913, esposta a Otterlo? Ma qui il furore e il tragico, l’impeto prepotente delle masse plastiche scomposte e colte nel loro dinamismo, aderisce totalmente alle linee di tensione e alla forza di visione che nasce dal pensiero, come metonimica rappresentazione del mondo che cambia aspetto seguendo le teorie moderne sullo spazio-tempo. A suo modo, sia pure come “mettere” e non come “togliere” nel senso plastico dei termini, la scultura di Boccioni è classica perché a suo modo “platonica”: energia attinta dall’iperuranio che rivela la forma. Ma in realtà anche la fusione in bronzo non nega il “togliere” che per Michelangelo significava cavare dal marmo l’opera segregata nella prigione della materia, mentre per Boccioni significa portare alla luce il conflitto di forze nello spazio-tempo per esprimere, soprattutto in pittura e per i legami con la tecnica divisionista, una sorta di energetismo dagli esiti apocalittici, come nell’opera assoluta e terribile quale sarà Materia.
Non dobbiamo pensare che “dinamismo” sia una qualche assimilazione del Futurismo alla fisica, come in parte si potrebbe dire del Cubismo, che resta, tutto sommato, una tendenza più semplice e dichiarata negli esiti perché più riferita all’idea della quarta dimensione (il Futurismo, forse, ne postula cinque o sei, tanto per non essere secondo a nessuno). Picasso aveva una “antipatia” chiara per i futuristi la cui esplosiva panoplia di strumenti e teorie insidiava allo spagnolo la scena di nuovo genio dell’arte. La forza inventiva di Picasso è spesso il “riflesso” di ciò in cui si è imbattuto e che rappresenta una sfida alla sua genialità. Nasce dalla provocazione sentita dal narciso che vive in lui. Ma come scrive Benzi nel catalogo, lo stesso spagnolo ha assimilato tramite Apollinaire, che le ha ricevute da Boccioni, le idee teosofiche sulla “quarta dimensione” di Balla. Con un calambour, considerando il peso che il Futurismo ha giocato sul Dadaismo, si potrebbe porre sotto l’ombrello estetico di Balla la riflessione che l’esoterico Hugo Ball ha sviluppato quando metteva in scena le performance del Cabaret Voltaire. Ecco dunque che i futuristi, pur innovando la scena non avevano ancora trovato quel feedback che si aspettavano dopo aver inondato il mondo delle avanguardie con i loro manifesti. Per questo, per l’impazienza della fama, nel 1914, forse avvertiti del successo dell’Armory Show e pochi mesi prima della Grande Guerra, Marinetti e Balla organizzarono a Roma, nella Galleria Sprovieri, L’esposizione Libera Futurista Internazionale, con l’intenzione di allargare la risposta del movimento a protagonisti stranieri e giovani. Questa volontà marinettiana coincide parimenti con una maggiore incidenza dell’energia immaginifica di Balla e la sua visione aperta anche ad apporti culturali oltre lo stesso Occidente. In varie occasioni ho avuto modo di ricordare come i riferimenti di Balla siano profondi, rivolti a un simbolismo alchemico, ma soprattutto ornamentale, che guarda a Oriente. Proprio questo meglio si concilia con l’idea “totale” futurista dove il segno e le linee- energia si allargano a una “ricostruzione dell’universo” che comprende varie forme creative e spirituali (e potrebbe risultare paradossale scoprire nell’esoterismo balliano, non diversamente dal cristianizzante Hugo Ball, qualche antica reminiscenza della teologia delle energie divine di un bizantino come Gregorio Palamas). Oltre a pittura, scultura e disegno anche design di oggetti, mobili, abiti, moda e tessuti, suppellettili, grafica e manifesti. Ed è davvero notevole il numero di opere di Balla presenti nella mostra
di Otterlo, oltre una quarantina su un insieme di circa duecento; ma diventa una conferma palmare dell’importanza unica del grande artista anche nella mostra FuturLiberty appena aperta a Milano al Museo del Novecento e a Palazzo Morando (fino al 3 settembre, catalogo Electa), promossa dall’omonimo marchio inglese Liberty, che compie 150 anni e pone a confronto lo stile floreale, i tessuti e i mobili ispirati da William Morris e altri esponenti britannici, con il Futurismo italiano e il Vorticismo inglese, che ebbe pure esso affinità precocicol movimento marinettiano, unica esperienza sostanzialmente ignorata dalla mostra di Otterlo, che invece presenta l’opera delle avanguardie europee tedesche, francesi, russe, olandesi. “L’estetica di un nuovo mondo” è idea in qualche modo lapalissiana nella mostra: a parte gli italiani, figure come Gropius, Arp, Van Doesbourg, Archipenko, Moho-ly-Nagy, Schwitters, Goncharova, Kandinsky, Schlemmer, Rodchenko, Rietveld, Delaunay, Malevich, Picasso, Léger, El Lissitzky, Duchamp, Miers van der Rohe… Davvero l’Europa dell’arte si specchia nel nostro movimento. Si apprezzano le belle architetture di Chernikhov, il disegno per la Città contemporanea di Le Corbusier, la spirale di Tatlin, le strutture di Vantongerloo e gli edifici di Oud, e allora non si capisce perché a fianco di Sant’Elia e Chiattone non figuri il Novocomum di Terragni. Dicevo della apparente ovvietà del sottotitolo che marca il cambio di estetica moderna. È, in definitiva, un concetto incontrovertibile: niente sarà più come prima. E così è stato. Come era nelle speranze del primo Manifesto futurista, apparso sul “Figaro” il 5 febbraio 1909.
Un fatto però mi pare evidente, considerate le due esperienze del Futurismo iniziale, e se vogliamo quella successiva di Depero che resta un genio dell’arte ludica – con Palazzeschi avrebbe potuto esclamare: «E lasciatemi divertire! » –, il Futurismo non esisterebbe affatto nell’attuale interpretazione come movimento di “arte totale”, che anticipa la Pop Art (ma non nella sua deriva kitsch-commerciale), se non ci fosse l’opera Balla nella sua integralità e varietà. Senza di lui sarebbe rimasto un movimento interno al rinnovamento delle arti, mentre grazie a lui è diventato un grande esperimento di “teatro del mondo”. Una convinzione dichiarata tanto dal curatore della rassegna di Otterlo, Fabio Benzi, che pone quasi invariabilmente in apertura di ogni sezione un nucleo di opere di Balla, quanto da Ester Coen, curatrice nelle due sedi di Milano di una mostra che, a parte l’ampia presenza di vorticisti inglesi, sembra quasi una personale di Balla, nel quale, non suoni azzardato, si ritrovano tutti gli altri artisti europei: da van Doesbourg e Rietveld a Schlemmer e Rodchenko (e, perché no, anche Picasso).