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2 Giugno 2022Archivi Esce da Succedeoggi Libri la corrispondenza tra il romanziere e il saggista. Anticipiamo la prefazione di Emanuele Trevi
Il carteggio con Leone Piccioni svela lo scrittore. E il critico che ne intuì la grandezza
di Emanuele Trevi
Sgomberiamo prima di tutto un equivoco: pur postumo e dunque difficilmente riconducibile a un’esplicita volontà d’autore, questo libro di Leone Piccioni su Gadda è destinato a lunga vita, come merita un tassello essenziale della bibliografia su questo grande scrittore, fonte inesauribile di ingegno filologico ed ermeneutico. Se ha senso suggerire una collocazione precisa nello scaffale dei lettori, io lo metterei vicino a una costellazione indispensabile di testi su Gadda per così dire «basilari», dotati tutti, oltre che di valore critico, di intrinseche qualità letterarie: La disarmonia prestabilita di Gian Carlo Roscioni (1969), Il gran lombardo di Giulio Cattaneo (1973), Quarant’anni di amicizia di Gianfranco Contini (1989) e L’ingegnere in blu di Alberto Arbasino (2008). Un «cerchio magico» nel quale si potrebbe utilmente accogliere anche qualche fulminante pagina ritrattistica di uno dei più geniali ed inquieti «nipotini», come si chiamarono a un certo punto i più tenaci e inventivi discepoli di Gadda, ovvero Goffredo Parise.
Ma perché l’interpretazione dell’opera e del mistero umano che l’ha prodotta è così importante quando parliamo dell’autore del Pasticciaccio e della Cognizione? Se la critica gaddiana è un’immensa e labirintica «città secondaria», per usare la celebre definizione polemica di George Steiner, che si è sviluppata nel tempo intorno al formidabile nucleo delle opere edite e inedite, è anche vero che quest’opera, per il suo livello di eccellenza e complessità, esige la mediazione critica, come accade per altri grandi maestri del Novecento europeo la cui leggibilità non è mai innocente, implicando grandi dosi di intelligenza ed empatia. E menzionando queste due virtù che dovrebbero sempre essere complementari, entriamo davvero nel cuore del metodo di Piccioni, sempre in bilico tra rigorosa comprensione del testo (non a caso fu allievo di Giuseppe De Robertis) e manzoniana conoscenza del cuore umano, non priva di ironia e di un pizzico di disincanto. Sono fatti di cui spesso ci si dimentica nel considerare il lavoro del critico, ma non si tratta solo di produzione di conoscenze. Avventure creative come quelle di Gadda e Ungaretti(per citare l’altro «faro» di Piccioni, come lo avrebbe definito Baudelaire) esigono una risposta che coinvolge l’individuo nella sua totalità: come essere storico e testimone, volente o nolente, del suo tempo e come soggetto irripetibile, dotato di una psicologia che in definitiva è ciò che gli antichi definivano destino.
Quando Virginia Woolf intitolava una famosa raccolta di saggi Il lettore comune, non intendeva fare un elogio del dilettantismo, che non produce mai nulla di utile, e tantomeno dell’impressionismo, ma riferirsi a una forma di umanesimo integrale di cui Piccioni è stato un esempio ammirevole lungo tutto il corso della sua laboriosa carriera di interprete. Sempre acutissimi, non di rado spiritosi, capaci di cogliere le più sottili motivazioni che si celano nelle pieghe dei testi, gli scritti su Gadda del critico toscanoromano si distendono su una cronologia lunghissima, accompagnando nel suo farsi l’opera immensa dell’autore della Cognizione del dolore. Contini aveva intitolato la raccolta dei suoi saggi su Montale Una lunga fedeltà, e del Piccioni gaddiano si potrebbe affermare la stessa cosa. Ma ancora più che di fedeltà, parlerei di un investimento: del riconoscimento, insomma, lucido e irrevocabile, di una grandezza ancora tutta da dimostrare. L’arte della critica è sempre difficile, ma la precocità nel giudizio di valore è davvero il discrimine tra i grandi e tutti gli altri: non si insiste mai abbastanza su questo, e forse siamo colpevoli nei confronti dei giovani, quando ci dimentichiamo di spiegare loro che bisogna scrivere sui contemporanei come faceva il giovane Piccioni nel 1950, quando in pochissimi sapevano la verità su Gadda. E certo, a questi stessi giovani, non si dovrà nemmeno nascondere il rischio di prendere solenni cantonate! In buona fede, possiamo scorgere un Gadda o un Montale in erba in tante promesse che poi rimarranno tali, ma ancora peggio del rischio di perdere una mano è la rinuncia al gioco.
Anni Cinquanta
Il giovane Piccioni scriveva quando in pochissimi sapevano la verità su Gadda
Personalmente, devo confessare che di cantonate ne ho prese tante, e che ogni volta che mi arrovello su questa delicata materia mi viene in mente uno splendido titolo di Piccioni, Maestri veri e maestri del nulla. Ho goduto dell’onore e del piacere di una tardiva amicizia telefonica con il diretto interessato, e gli confidai quanto spesso la formula (che tra l’altro si stampa nella memoria come un perfetto endecasillabo) mi fosse tornata in mente nel corso del tempo, come un solenne monito di sapore giansenista. Lui ne rise cordialmente, e mi rincuorò con troppa generosità. Rimango convinto però che questi testi su Gadda, al di là del loro valore intrinseco, siano esemplari dal punto di vista della discriminazione del futile e dell’essenziale, e che Piccioni è un saggista di prim’ordine proprio perché i «maestri veri» sa fiutarli da lontano, ovvero quando i maestri hanno ancora un futuro.
A lui, nato nel 1925, Ungaretti (di cui fu allievo a Roma) arrivò già consacrato da un’imponente tradizione critica. Lo stesso Ungaretti, si può dire, percepiva se stesso come un classico fin dalla prima giovinezza. Nulla di tutto questo in Gadda, perché la nevrosi scava da sotto i piedi del grande lombardo qualunque terra, facendone un meraviglioso disadattato sia nella società che in quella società di secondo grado che è la storia letteraria. Il critico, in questo non diverso dallo psicanalista, sa bene che la nevrosi mente, che non bisogna mai fidarsene; ma nello stesso tempo questa fonte di menzogne produce forme straordinarie e irrinunciabili, immagini veritiere del mondo.
Come districarsi da questo nodo gordiano? Piccioni si rifiuterebbe di fornire una risposta assoluta. Anche perché ogni scrittore, come ogni essere umano, si porta sulle spalle una croce diversa da tutte le altre. Fatto sta che aprendo questo libro magari pensavamo di sapere tutto di Gadda, e chiudendolo ci rendiamo conto che lo vediamo meglio di prima. Davvero non è poco, ed è un onore per me premettere queste brevi e inadeguate riflessioni all’opera di un «vero maestro».