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Dopo un’ora dall’inizio della manifestazione centinaia di persone continuano a farsi strada sulla collina che ospita le istituzioni israeliane. La Marcia della Vittoria non riesce a tagliare il traguardo desiderato, 50mila partecipanti, ma è comunque un successo: lì sul selciato che conduce alla Knesset e alla Corte suprema ce ne sono 10-15mila. Decisamente di più di chi scende in piazza in solidarietà con le famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza.
Non scontato per un’iniziativa lanciata appena due settimane fa da un’organizzazione composita, che ruota intorno ai neonati Reservists until Victory (Mahal HaMiluimnikim): riservisti, soldati di ritorno da Gaza, rabbini, attivisti di destra ed ex militari del gruppo Ad Kan, e poi Mothers of Soldiers, Lobby 1701, il Tikva Forum, uniti sotto lo slogan «Andare avanti fino alla vittoria».
VITTORIA SIGNIFICA, spiega la soldatessa che apre gli interventi, la distruzione di Hamas, solo con l’esercito dentro Gaza si porta a casa il risultato. Un messaggio condiviso dai vertici governativi e da un pezzo di società israeliana: nessun negoziato, la guerra vada avanti. A impressionare, però, è la piazza: sembra più un happening, che un ritrovo di gente che chiede di fare la guerra. Famiglie, genitori con i figli ancora sui passeggini, anziane coppie, ragazzini. Laici e ultraortodossi, soldati in uniforme e civili con il fucile. Signori di mezza età in cravatta e giovani universitarie con le sneakers. Cittadini normali. Ci sono i papà che fanno ballare le figlie sulle spalle, ragazzini che portano una barella con sopra un elmetto da soldato, le file per ritirare il cartello con la foto di un soldato morto a Gaza.
IMMAGINI degli ostaggi, no: «Bisogna accettare qualche sacrificio per vincere», riassume Alex mentre distribuisce adesivi. «Netanyahu non provi a uscire da lì, va finito il lavoro o sarà stato sangue sprecato», spiega una giovane donna. Dal palco intanto si alternano gli interventi, insistono su una parola, «Vittoria», la gridano e sotto applaudono tutti sventolando migliaia di cartelli «Il mio amico non è morto invano».
L’angoscia che accompagna la quotidianità post-7 ottobre, lo choc che tanti israeliani tentano di trasmettere, qui si fa euforia. La piazza canta, balla al ritmo della musica pop sparata dal palco, tiene il tempo con le trombette e improvvisa picnic. Il motivo, forse, lo centra Yonathan, 60 anni e baffi già bianchi: «Siamo diventati mainstream. Le nostre idee sono diventate mainstream». Dopotutto i riferimenti sono gli stessi dell’ultradestra al governo, del nazionalismo religioso e il sionismo messianico, ma anche del Likud: i palestinesi come gli amalek, vanno cancellati. «Si parla di finire la guerra, creare uno stato palestinese – diceva alla vigilia Matan Wiesel, uno degli organizzatori – Se non occupiamo e controlliamo il territorio del nemico, manderemo un messaggio alla regione: Israele è debole».
LO RIPETE da giorni la Marcia, partita il 4 febbraio dal kibbutz di Zikim e documentata su Facebook e X: foto di manifestanti in calzoncini mescolate ai videomessaggi di soldati sul campo, rabbini vicini ai movimenti di destra e genitori di militari caduti. Chiedono di riempire le piazze per riempire i cannoni: «La fine dei giorni è alle porte, quando apparirà il Messia tutti si inchineranno al Creatore». Gaza va spazzata via. Gaza se la cava fin troppo bene. E giù video dell’enclave palestinese girati prima del 7 ottobre ma spacciati per attuali, con mercati pieni di gente allegra, ristorantini di shawarma e camion in viaggio tra strade senza né macerie né crateri.
Gli obiettivi della Marcia, messi nero su bianco, sono gli stessi di un pezzo significativo di governo israeliano, quelli di Smotrich e Ben Gvir e le loro conferenze per la ricolonizzazione di Gaza e in forma più sottile quelli di Netanyahu: «Terra: assicurarsi la vittoria nella campagna sottraendo un territorio significativo alla Striscia di Gaza e annetterlo allo stato di Israele; Nemico: la distruzione di Hamas e l’incoraggiamento dell’immigrazione della popolazione “non coinvolta” di Gaza; Assistenza: al nemico non va fornita assistenza logistica». Ovvero gli aiuti umanitari che gruppi aderenti alla Marcia – in prima fila le Mothers of Soldiers – stanno bloccando, spesso con successo, al porto di Ashdod e al valico di Kerem Shalom. In breve: ricolonizzazione della Striscia ed espulsione della popolazione palestinese, e fino ad allora carestia e malattie.
Degli ostaggi israeliani non sembra esserci l’ombra: anche questo concetto si fa sempre più mainstream, solo la metà degli israeliani – secondo gli ultimi sondaggi – ritiene una priorità la loro liberazione (intanto ieri sera le famiglie erano a Tel Aviv a chiedere di nuovo un accordo).
GAZA è lontanissima, molto più di un’ora e mezzo di auto. Sopra il cielo di Gerusalemme non si sentono nemmeno i caccia, passano sopra la Cisgiordania. La città di Rafah è il punto più lontano di tutti. La notte prima della Marcia è stata pesantemente bombardata, soprattutto la zona ovest.
«UN’ESPANSIONE delle ostilità – avvertiva ieri l’ong Norwegian Refugee Council – può trasformare Rafah in un bagno di sangue e distruzione». Sessantatré km² che ospitano già 1,4 milioni di civili, due terzi dell’intera popolazione di Gaza. La Striscia che si rimpicciolisce allarma le Nazioni unite. Ieri Volker Turk, alto commissario per i diritti umani, ha avvertito Israele che la creazione di una zona cuscinetto attraverso la distruzione a tappeto di migliaia di edifici civili ammonta a crimine di guerra (sarebbero 3mila, secondo fonti ministeriali palestinesi, gli edifici dati alle fiamme nelle ultime settimane dall’esercito israeliano, spesso documentati sulle piattaforme social dagli stessi soldati).
E INTANTO si continua a morire: 27.840 palestinesi uccisi, a cui si aggiungono migliaia di dispersi. Tra le vittime anche una ragazzina di 14 anni, uccisa da un cecchino israeliano fuori dall’ospedale Nasser di Khan Yunis. Sembra fosse uscita per cercare dell’acqua.
PERCHÉ L’OSPEDALE è da giorni completamente assediato: 300 medici, 450 feriti e 10mila sfollati chiusi dentro, senza viveri; fuori c’è il fuoco dei cecchini, raccontano i giornalisti nelle vicinanze. Che, da parte loro, piangono un altro collega: Nafez Abdel Jawad, della Palestine Tv, è stato ucciso in un raid aereo con il figlio, a Deir el-Balah. È il 123esimo reporter ammazzato dal 7 ottobre scorso, certifica Reporter senza Frontiere: «L’esercito israeliano ha decimato il giornalismo palestinese».