L’equidistanza è difficile e può essere strumentalizzata o equivocata. Dopo l’incontro in Vaticano, infatti, la delegazione palestinese, ricevuta verso le 8 del mattino, contribuisce a creare un piccolo incidente. “Il papa ha riconosciuto che viviamo un genocidio”, ha dichiarato Shrine Halil, cristiana di Betlemme, presente all’incontro. “Non mi risulta abbia usato tale parola”, ha subito smentito il portavoce vaticano Matteo Bruni. Ancora più netto Parolin, secondo cui è “irrealistico” che il papa abbia utilizzato il termine “genocidio”. In ogni caso, quelle parole non sono piaciute alla presidente dell’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche, Noemi Di Segni, la quale avrebbe “preferito una chiara condanna” da parte del pontefice.
Che l’equidistanza sia cosa complessa lo dimostra anche l’altro incontro avvenuto intorno alle 7:30 a Casa Santa Marta. Subito dopo, la delegazione israeliana fa trapelare una certa “delusione” per un incontro durato meno di quanto sperato. Ma comunque definito incontro “significativo”, con un papa che ha mostrato molta “compassione” come raccontano alcuni dei familiari durante un meeting organizzato presso lo studio Maim.
Qui hanno preso la parola Nadav Kipnis del kibbutz Be’eri che ha sette familiari tra gli ostaggi, tra cui tre bambini di 3, 8 e 12 anni; John Polin e Rachel Goldberg, genitori di Hersh, 23 anni, rapito al rave party e raffigurato in un video di Hamas con un braccio mozzato; Yair Rotem, anch’egli di Be’eri a cui hanno rapito la sorella Raya e la nipote Hilah, 12 anni.
I racconti ricalcano le scene di dolore e terrore di cui abbiamo già dato conto riferendo del video mostrato qualche giorno fa dall’ambasciata israeliana. Case bruciate, il terrore di chi si è salvato, Rotem, perché nascosto nel cassettone del letto della sua safe-room, il terrore dei 29 ragazzi fuggiti dal rave e nascosti in un rifugio preso d’assalto dalle granate. Nel dolore composto esibito ai giornalisti, i familiari degli ostaggi raccontano la paradossale speranza che i propri cari fossero stati rapiti piuttosto che saperli uccisi chissà dove, oppure l’angoscia per la mancanza di informazioni. Sul governo Netanyahu non si muovono critiche – “qualsiasi governo al mondo avrebbe difficoltà a gestire una situazione simile” – però John Polin ritiene che la mobilitazione dei familiari e la solidarietà dimostrata “possono aver spinto il governo ad agire prima di quanto avrebbe fatto”. Tutti si dicono contenti della notizia del primo accordo, “ma non basta, occorre liberarli tutti” e chiedono di non dimenticarsi della loro vicenda ormai “un’unica crisi globale”.
Il nemico è Hamas, “ma non i palestinesi” con cui in qualche modo bisogna trovare una convivenza anche se d’ora in poi nei loro villaggi e kibbutz sarà difficile sentir parlare arabo. “Ma non si può vivere senza speranze”, sottolinea sorridendo Rachel Goldberg. Tra le mani, la foto di suo figlio in una recente vacanza a Milano.