Sospesi a metà tra il boom economico e il Duemila, i coetanei di Kurt Cobain sono i primi a conoscere il lavoro precario e il tramonto delle ideologie
di
Francesca Coin
Una delle definizioni più affascinanti di Kurt Cobain l’ha data Mark Fisher, compianto autore di Realismo capitalista ( Nero, 2018), secondo il quale il musicista era il simbolo di una generazione nata alla fine della storia. « Nella sua terribile depressione e nella sua rabbia senza oggetto», scriveva Fisher, Cobain « sembrava aver dato voce allo sconforto della generazione che era venuta dopo la storia, ogni cui mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e venduta prima ancora che accadesse». Gli anni Novanta sono stati un decennio di stallo, osserva Fisher, in cui l’assenza di un’idea collettiva di futuro aveva portato la musica e l’arte a ripiegarsi su sé stesse, riproducendo gestualità e contenuti del passato, in una specie di nostalgia mista a un senso di impotenza.
Nata tra il 1965 e il 1980, a metà tra il boom economico del secondo dopoguerra e gli anni Duemila, la Generazione X aveva le stesse caratteristiche di Cobain. Descritta a lungo come inerme e disillusa, la sua rabbia puntellava l’inerzia di quegli anni. Mentre negli anni Sessanta e Settanta i movimenti femministi, anticoloniali e le lotte sul lavoro avevano provato a cambiare il mondo, impegnandosi per sconfiggere la diseguaglianza e le gerarchie sociali, negli anni Ottanta la sconfitta di quelle lotte aveva lasciato spazio a un’epoca di riflusso. Gli show del sabato sera e gli abiti di paillette avevano tinto di gesti vuoti l’immaginario. In quel contesto, non c’era più spazio per le grandi visioni collettive. Un po’ come i protagonisti di Generazione X(1991), il libro dello scrittore canadese Douglas Coupland, si ritrovano a svolgere lavori precari nel tentativo di sottrarsi a un mondo fatto di alienazione e di centri commerciali, così la Generazione X per lungo tempo ha vissuto la propria epoca con un senso di rabbia e di pessimismo. In alcuni casi, questo malessere si è trasformato in un conflitto aperto, come è accaduto nelle proteste di Seattlenel 1999 e di Genova nel 2001. Più spesso, tuttavia, questa generazione ha tentato di adattare la propria vita al mondo esistente, come se le fosse preclusa qualsiasi possibilità di trasformazione.
Per molti versi, la depressione e la rabbia senza oggetto di Kurt Cobain nascono qui, come riflesso di quell’idea thatcheriana di assenza di alternative che definiva quegli anni: TINA – There is no alternative. In quegli anni, le prospettive di crescita sembravano infinite. Lo sviluppo socioeconomico sembrava destinato a durare in eterno. Nel frattempo, facevano irruzione nel mondo lavorativo le prime ristrutturazioni aziendali, i licenziamenti di massa e la precarietà. La bolla delle dot. com e la Guerra nel Golfo. Queste crisi ombravano di incertezza le aspettative di crescita, ma erano presentate come eccezioni in un’epoca di sviluppo destinata a durare per sempre. La fine della storia, come l’aveva definita Francis Fukuyama, in fondo era questo: l’epoca inaugurata dal crollo del muro di Berlino e dalla fine della Guerra Fredda, in cui le democrazie liberali potevano finalmente portare l’umanità all’apice dello proprio sviluppo.
È così che, in quegli anni, si è passati rapidamente dalle controculture giovanili degli anni Settanta alla meritocrazia, dagli hippy in California agli Young Urban Professional di Wall Street. D’un tratto i sogni che guidavano la mia generazione non erano più collettivi. Erano diventati individuali e il lavoro era ciò che permetteva di realizzarli. Tra Wall Street – il film diretto da Oliver Stone nel 1987 che mette in scena il lavoro nel mondo della finanza – e Il segreto del mio successo – pellicola uscita nello stesso anno, nella quale Michael J. Fox interpreta un fattorino che riesce a fare carriera nella multinazionale dello zio –, in quel periodo il lavoro diventa uno strumento di emancipazione e di realizzazione di sé. Siamo lontani dal rifiuto del lavoro degli anni Settanta: l’emancipazione era una strada da percorrere individualmente, trovando un lavoro sul quale riporre le proprie aspettative di mobilità sociale.
Le cose sono cambiate molto, da allora. La crisi di Lehman Brothers, la crisi climatica, la guerra e la pandemia hanno cambiato il contesto in cui sono cresciute le generazioni successive alla mia. Cresciute in un’epoca di crisi segnata da circostanze incontrollabili, come la pandemia e i fallimenti bancari che si sono susseguiti dal 2007, oggi le giovani generazioni non hanno il lusso dell’illusione. Per i millennials e per la Generazione Z, il futuro non è più una promessa di crescita e progresso, ma un’incognita fatta di crisi e insicurezza sociale. Il lavoro, dal canto suo, non è uno strumento di emancipazione: la vita costa troppo, e il lavoro rende troppo poco, per consentirlo. A differenza della Generazione X, i ventenni di oggi crescono alla fine della fine della storia. È un’epoca più insidiosa, per molti versi, delle precedenti. Nella quale, tuttavia, è possibile tornare a parlare del futuro.