Gianrico Carofiglio, per una volta partiamo dalla fine. Partiamo dai commenti. Dalla «piena solidarietà» espressa da Matteo Salvini al gioielliere di Grinzane Cavour condannato per duplice omicidio. Cioè, partiamo da un ministro che attacca il lavoro di un giudice e sconfessa una sentenza. Cosa sta succedendo in Italia?
«Io non commento quello che dice Salvini in generale, tantomeno lo commento sui temi della giustizia. Perché quando era il ministro dell’Interno ha trattato con estrema cordialità dei pericolosi pregiudicati. Mi riferisco, nello specifico, a un signore di nome Lucci, arrestato dalla polizia per traffico di droga e già condannato per avere reso cieco con un pugno un tifoso avversario. Di fronte alle contestazioni per questa cosa inaudita e scandalosa per un ministro dell’Interno, Salvini ha risposto così: “Sono un indagato fra altri indagati”. Vede bene che per un giurista confrontarsi con Salvini sui temi del diritto è inimmaginabile».
Riformulo la domanda. Lei ritiene che questo attacco alla sentenza di Grinzane Cavour faccia parte dell’attacco alla magistratura a cui stiamo assistendo negli ultimi giorni?
«Non credo che qui ci sia un tema di contrapposizione fra poteri dello Stato. Ma il tentativo, che io trovo eticamente molto censurabile, di fare fruttare vicende tragiche, con persone morte e vite distrutte, per un tornaconto politico. Sfruttare la contingenza: ecco di cosa si tratta. Questo non toglie che ci siano molti politici, e non soltanto in questa maggioranza, insofferenti all’idea che esista un controllo di legalità».
Andiamo al caso specifico. Lei cosa ha pensato quando ha letto che il gioielliere era stato condannato a diciassette anni?
«Ho pensato: è una pena giuridicamente corretta. Sono state concesse attenuanti di due tipi. Quelle generiche, che riguardano le condizioni personali del reo, il fatto che fosse incensurato. E l’attenuante della provocazione, a dimostrazione che i giudici hanno tenuto conto della serie di rapine subite da quell’uomo. Che a sua volta, ovviamente, è un’altra vittima di quella storia, pur avendo fatto – stando ai resoconti – una cosa tremenda».
Quanto avrebbe rischiato senza attenuanti?
«Trent’anni o anche l’ergastolo».
Perché non è stata legittima difesa?
«Immaginiamo questa situazione. C’è un negoziante che subisce tre rapine di seguito, ed è giustamente esasperato. Vorrebbe che i rapinatori venissero arrestati, vorrebbe che la smettessero di accanirsi contro di lui. Un giorno quel negoziante subisce la quarta rapina. I rapinatori scappano, ma per la prima volta li vede in faccia: li riconosce. Sono due ragazzi che ha già visto in precedenza. E quindi, chiude il negozio, prende la pistola, va a trovarli a casa, uno per uno, spara e li uccide. Io credo che neanche gli estremisti deliranti della presunta legittima difesa definirebbero lecito un comportamento del genere, sostenendo che ci si può fare giustizia da soli alla Charles Bronson. Ma quello che ho descritto è del tutto analogo a ciò che, stando ai resoconti, sarebbe successo nel caso di cui ci occupiamo. Tentativo di rapina finito, rapinatori in fuga, inseguimento ed esecuzione. La legittima difesa è un’altra cosa».
Cosa dice la norma?
«Voglio leggerla: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa».
Cosa significa costretto?
«Non può avere scelta. Non ne ha. Gli stanno per sparare, spara. Gli stanno per dare un pugno, risponde con un pugno o con un calcio. In modo proporzionato».
Cosa significa pericolo attuale?
«È legittima difesa solo se avviene quando l’aggressione è in corso. Se l’aggressione è cessata, come nel nostro esempio, rivive le regola per cui è allo Stato che spetta il monopolio dell’uso della forza. Serve sottolineare che il diritto penale è nato proprio per evitare che i cittadini si facciano giustizia da soli. Nel diritto romano si diceva: “Ne cives ad arma veniant”. Affinché i cittadini non ricorrano alle armi. Questo serve alla democrazia. L’alternativa è la giustizia privata, cioè la vendetta».
Criticare la sentenza incoraggia i giustizieri solitari?
«No, credo che sia un rischio improbabile. Ma quello che si produce per effetto di questo parlare a ruota libera, senza alcun limite di etica e di decoro, è che i cittadini – soprattutto quelli meno attrezzati – si sentano autorizzati a parlare nello stesso modo. Autorizzati a tirare fuori il peggio delle loro pulsioni. Se un leader manda questi messaggi, se un politico di vertice dice che puoi pensare, dire ed eventualmente fare tutto quello che ti pare, allora l’effetto è devastante. C’è un imbarbarimento complessivo».
È l’Italia del bipolarismo giudiziario?
«È il tempo della contrapposizione su tutto. Lo scontro è totalmente radicalizzato e prescinde dai contenuti, contano solo gli schieramenti e le casacche. È un fenomeno grave che ha anche a che fare con l’età della rete. È come se tutti fossero arruolati. Non si possono mai riconoscere le ragioni dell’altra parte. Io mi rifiuto di partecipare a tutto questo».
O con il gioielliere o con i rapinatori?
«È un problema molto grave. È un eccesso continuo di semplificazione. Riduce la possibilità di parlare seriamente dei problemi».
Come fa un magistrato a non sentire il peso di questo clima da stadio?
«Quando facevo il pubblico ministero, la regola a cui mi attenevo era questa: applicare con coscienza e con tecnica interpretativa la legge, evitando accuratamente i giudizi morali».
Perché l’Italia, più di ogni altro Paese, si divide sempre fra innocentisti e colpevolisti?
«Non ho certezze, ma quando la politica in maniera così energica e anche violenta rifiuta una delle regole basilari delle democrazie moderne, e cioè che esistono tre poteri e che devono essere autonomi uno dall’altro, è facile che tutto questo si riversi anche sui cittadini».